Il Pardo d’oro a Albert Serra era abbastanza nelle cose, il trentottenne regista catalano infatti è uno di quei nomi nel cuore della nuova cinefilia, e Historia de la Meva Mort fa vibrare tutte le corde di quel gusto glamour che oggi orienta le tendenze nei circuiti di ricerca festivalieri e di produzione film-laboratoriale. Di per sé questo non è un demerito, anzi Historia (coproduzione francese) è un film di quelli importanti, che esprimono con talento la ricerca del cinema, e degli immaginari, in questo momento indicandone una delle direzioni possibili.

Serra sulle tracce di un Casanova ridanciano, che annusa con voluttuosa goduria la sua merda per assistere infine alla sua trasformazione in oro, rilegge in farsesco lo scontro tra Tenebre e Lumi agonizzanti, scegliendo come antitesi alla macchina celibe della seduzione, l’oscurità sensuale di un Dracula con parrucca. Il piacere di un morso nel collo, con ciò che risveglia, non è comparabile al sesso meccanico del vecchio dandy ormai un po’ decomposto. Anche stavolta, dopo Don Chisciotte Honor de Cavalleria) e i Re Magi (Il canto degli uccelli), Serra con il dispositivo del viaggio affronta la mitologia, e la sua rappresentazione, per capovolgerne il senso, appropriandosene con ironia, cercando dietro all’immagine trasmessa nei secoli un «negativo» dissacrante. Lo spazio privilegiato è l’immagine, la luce, e la grana da cui far emergere il tempo oltre il Mito. I chiaroscuri, e le nature morte, il lavoro sulla «tessitura» dell’immagine in questo film sono sorprendenti. Anche se le epifanie più sensuali arrivano quando Serra sembra preoccuparsi meno delsuo assunto di partenza, molto ambizioso, e troppo spesso intrappolato in uno svolgimento glaciale.

All’opposto è invece il premio che la giuria presieduta da Lav Diaz ha assegnato a E Agora? Lembra-me di Joquim Pinto, ma gli antipodi sembrano essere la figura con cui meglio descrivere questa edizione, esordio con successo di Carlo Chatrian. E forse è anche un po’ il difetto, nel senso che si ha avuto l’impressione ci fosse molto e un po’ di tutto, distribuito quasi con ecumenismo, pure se Chatrian si è preso dei bei rischi come hanno dimostrato le molte polemiche infuriate sui film. Polemiche sempre extra-cinematografiche, sia chiaro, dalle accuse a Delbono per la presenza nel suo bel Sangue del leader Br Giovanni Senzani, agli attacchi contro questi due premi, il film di Serra sgradito perché cerebrale (e pure scandaloso) e quello di Pinto peggio visto che il protagonista è un gay malato di Aids. No comment ovviamente pensando all’immagine di un bimbo africano che beve nella ciotola degli aiuti umanitari presa come monito per gli ospiti dell’ostello di Locarno a «non sporcare» tutto il resto appare pretesto.

E agora? Lembra me dunque, che è anche il ritorno dopo tanti anni di assenza (ora capiamo meglio perché) di un regista talentuoso come Joaquim Pinto, che nasce come fonico, e in questo ruolo lavora a moltissimi film, è una promessa delle giovani generazioni del cinema portoghese apparse tra la fine degli anni Ottanta e i Novanta – tra loro Pedro Costa e Teresa Villaverde – con un film spiazzante come Uma pedra no Bolso (87). Quei ragazzi che avevano vent’anni e anche meno nei giorni della Rivoluzione dei garofani, e che erano la «nuova onda» dell’immaginario del paese, dopo i Paulo Rocha (omaggiato al festival) e i Monteiro di Pinto è stato produttore. Il cinema era il mezzo con cui inventare il mondo nuovo del loro paese ma anche col quale sradicare tabù e cattive coscienze degli immaginari. In fondo, e si capisce bene dai molti frammenti di memoria che attraversnao le quasi tre ore di E agora? Lembra-me, prima di tutto una scoperta di vita. Buttandosi a capofitto, senza troppi freni.
Pinto all’improvviso è scomparso, sapevamo della malattia, e per tornare sceglie un diario commuovente ma senza retorica della lacrima, una rilettura dell’autofinzione in cui lui è sempre presente con le sue nevrosi, i ricordi, le storie delle persone che hanno attraversato la sua esistenza, gli amori, Nuno, il compagno a cui deve moltissimo e che gli è stato sempre vicino, bello e malato come lui. Le scelte, la vita lontano da tutto in campagna, le nuove cure ancora proibite a Madrid, l’angoscia, l’insonnia, le mail scritte all’amica che segue gli stessi trattamenti condividendo l’incertezza e il buio.

Poteva essere rischioso, e lo è, perché a punteggiare i fatti della vita e di questa battaglia feroce con la malattia, ci sono molte altre cose, pensieri, riflessioni, immagini del passato, il viso bello di un ragazzo col broncio innocente, le scoperte in America, l’omosessualità, i film… Tutto insieme, un flusso potente, violento, tenerissimo, con cui Pinto cerca un’immagine alla sua esperienza ma, soprattutto, interroga l’immagine stessa, ne forza i confini mettendo in discussione le pratiche di rappresentazione del dolore o della malattia in una forma di personalissima sovraesposizione, in cui il narcisismo diviene fare-cinema.

Mi piace in questo film la sua natura inattuale, quell’essere lontano da correnti d’aria del tempo, quell’essere lì nella sua urgenza che è insieme desiderio, voglia di vita, pacatezza e osservazione di sinergie sconosciute. Un’esperienza, oltre che in film, ma non deve essere anche questo disorientamento il senso di ogni visione?
Anche il premio alla regia al regista coreano Hong Sang-soo non è forse così «spericolato». Il nostro sushi è un film sublime, in cui il cineasta coreano – di cui il 22 arriva sui nostri schermi il precedente In Another Country con Isabelle Huppert – conduce con mano sapiente il gioco di messinscena fatto di dettagli minuscoli e di ironia giocosa.

Una giovane studentessa di cinema scomparsa per un po’ di tempo si ripresenta in facoltà e nel giro di pochi giorni si trova corteggiata dal professore maturo, a cui ha chiesto referenze per una borsa di studio all’estero, dal suo ex fidanzato e da un compagno di corso più grande, anche lui studente di cinema, dal quale era stata attratta. Nell’intreccio degli equivoci di sapore rohmeriano, i personaggi finiscono per essere messi davanti ai loro limiti e alle loro debolezze che preferiscono invece addossare agli altri. Con leggerezza Hong Sang-soo passa da una situazione all’altra, seguendo i tre uomini che all’improvviso sono innamorati della stessa ragazza. Lei si cerca, appare e scompare ed è quel sottrarsi che sembra attrarli. Ogni incontro è come un capitolo, un ammiccamento cinefilo e un addentrarsi leggero nel discorso amoroso, chiuso da una canzone che parla di tempi andati. Variazione infinita di un nucleo sul femminile e maschile col quale l regista riesce a sorprenderci a ogni passaggio.