Un film interamente dedicato all’amore. È così che Céline Sciamma racconta Portrait de la jeune fille en feu, premio per la sceneggiatura all’ultimo Festival di Cannes, nella shortlist degli Oscar al miglior film internazionale, da oggi nelle sale italiane «occupate» dai blockbusters natalizi col titolo Ritratto della giovane in fiamme. Non è una «sfida» perché nulla di muscolare ha questo film, piuttosto un bel suggerimento verso altri orizzonti della visione, verso un cinema che sa meravigliosamente occupare occhi e cuore senza trucchi né super budget di tecnologie.

UNA STORIA d’amore appunto. Due ragazze nel 1770, Marianne (Noémie Merlant) è una pittrice costretta a firmarsi col nome del padre – per le donne l’arte è un terreno interdetto. Héloïse (Adèle Haenel) è figlia di una nobiltà un po’ decaduta che considera la prole femminile garanzia di un benessere futuro con matrimoni quasi mai d’amore – in alternativa c’è il convento dove infatti la ragazza era rinchiusa.

La madre (Valeria Golino) vuole farla sposare con un aristocratico milanese, promesso marito della sorella che invece si è gettata dalla scogliera prima delle nozze, il ritratto serve a questo, a mostrarla all’uomo. La ragazza però rifiuta l’uno e l’altro, nessuno chiamato fino allora è riuscito a riprodurne il viso, e anche il pittore che ha preceduto Marianne se ne è andato sconfitto. Lei è sbarcata di notte con le sue valigie pesanti nella grande casa di fronte al mare. Si farà passare per una dama di compagnia, uno stratagemma con cui riuscire a avvicinarla.

Ma può bastare? Sarà Héloïse la «ragazza del ritratto» o qualcun’altra? «È così che mi vedi?» dice divertita a Marianne la sua «modella» quando le fa scoprire la sua immagine «rubata», ricomposta sui frammenti osservati durante i loro incontri, sugli schizzi impressi nella mente. Cosa c’è che non funziona in quel dipinto? Un’assenza di sguardo, e di desiderio, che la regista mette al centro della narrazione, delicata e precisa nei continui passaggi tra la scrittura e l’immagine.

Anche sceneggiatrice (La mia vita da zucchina di Claude Barras; Quando hai 17 anni di André Téchiné ) Sciamma sa raggiungere quell’equilibrio in ognuno dei suoi film, dal primo Naissance des pieuvres – nel quale ritroviamo una giovanissima Haenel – al precedente Diamante nero. Ma qui la materia era più complessa, e sfuggente nella sua dimensione universale e oltre il tempo alla visibilità: l’amore nel momento della sua nascita, l’incontro tra due persone, l’attrazione, la scoperta dell’altro – guardarlo, vederlo: il gesto del cinema? E questo non passando per le parole ma per l’immagine, la luce, la materia, i corpi delle attrici, la fisicità di un paesaggio emozionale che pian piano si rivela mutando nella diversa intensità dello sguardo.

ALL’INIZIO sono occhiate quasi clandestine, Marianne osserva Héloïse di spalle, prova a indovinarne le espressioni, si appunta veloce qualche particolare, padroneggia la tecnica, procede veloce. Quando il copricapo scivola via nota i capelli biondi di Héloïse, un orecchio, lo zigomo. I riflessi del cielo e del mare ritagliano le loro figure in modo netto contrastando con la notte negli interni appena rischiarati dalle candele.

Alla visione di sé sulla tela Héloïse la rimprovera, credeva che i suoi sguardi fossero qualcos’altro. E lo erano, o almeno lo erano diventati. Perché se tutto comincia dal ritratto, nel «guardare» e nell’«essere guardati», in quel contatto a distanza, il desiderio è nato, brucia come la fiamma che afferra l’abito di Héloïse, un’affinità, un’irrequietezza complice che è anche la richiesta di sfuggire alla loro condizione, a un femminile imposto come una condanna, la negazione del desiderio e della sua libertà.

IL FEMMINILE del film di Sciamma sono le sue protagoniste, l’amore, l’erotismo, la sessualità; e l’amicizia, l’incontro, l’essere insieme – la stessa vicinanza che unisce le protagoniste al di là della «classe» alla giovane cameriera Sophie (Luana Bajrami). Soprattutto però a questa dimensione di chiacchiere, di lacrime, di paure, di interdetti Sciamma si accosta cercando di restituirgli l’immagine che non ha mai trovato, nella storia e nel presente, ed è ancora una volta l’arte la sua cifra non il dogma. Il mito di Orfeo e Euridice – quell’Orfeo che Godard giudica colpevole – ritorna nelle parole dei personaggi, la scelta di Orfeo è stata quella del poeta e non dell’innamorato dicono. E qui si pone Sciamma, è in questa relazione tra artista e soggetto, o regista e attrice/attore che prende forma il suo racconto, che si afferma il desiderio, che il femminile ritrova nei molti tumulti e conflitti una sua immagine. Di invenzione e di profonda realtà.