La storia di Mattia Pascal, l’uomo che – stanco della sua squallida vita – coglie al volo l’opportunità di farsene un’altra, diversa, diventando Adriano Meis, è una delle parabole fondamentali del modernismo letterario, e a tutti gli effetti un mito contemporaneo, di quelli noti persino a chi ignora l’esistenza di Luigi Pirandello, e non è un caso se ne venne addirittura realizzata una variante horror per un episodio di Dylan Dog. L’uomo che evade fortunosamente dalla sua esistenza per poi dovervi forzatamente tornare diventa metafora della condizione umana, e si presta ovviamente a riletture e reinterpretazioni; e non è difficile intuire che, trasposta negli Stati Uniti, la metamorfosi non sarà artigianale, provvista dal caso e da qualche piccolo accorgimento fai-da-te. Nell’America delle corporation sarà una grande azienda a vendere una vita diversa, e il cliente scoprirà alla fine che – come spesso accade nel capitalismo avanzato – quel che riceve non è ciò che veramente desiderava, bensì quanto il venditore gli vuole affibbiare.

Questo accade in Istituto di bella morte, dello statunitense David Ely (traduzione di  Daniela Pezzella, Cliquot, pp. 205, € 20,00), un compatto e serrato romanzo che ha tanto di Pirandello ma anche, innegabilmente, di Kafka: un incubo modernista a tutti gli effetti. Ely, uno scrittore partito dalla fantascienza e approdato al giallo, praticamente dimenticato in patria, lo pubblicò nel 1964; fu la sua unica opera a godere di vera fama, soprattutto grazie all’adattamento cinematografico di John Frankenheimer del 1966, che in Italia ricevette l’inqualificabile titolo Operazione diabolica. Il film venne ricompreso nella cosiddetta «trilogia della paranoia» del regista americano, assieme a Va’ e uccidi e Sette giorni a Maggio, e non si può negare che già nel romanzo ci sia una marcata componente psicotica: dal momento in cui Wilson, il protagonista, si lascia convincere da un vecchio amico a ricorrere ai servizi dell’azienda che fornisce nuova vita (morte simulata, plastica facciale, documenti falsi, nuova abitazione in un’altra parte del paese), il «rinato» viene tenuto costantemente sotto sorveglianza da parte dell’Istituto, una condizione che si fa sempre più angosciosa e grottesca man mano che Wilson si rende conto di non riuscire a fare di sé un altro uomo.

La seconda vita di Wilson è del tutto artificiale: è un prodotto di plastica, una sorta di Peyton Place fasullo, la sua socialità è quella dei suburbs,  completamente artefatta perché i vicini, si scopre, sono altrettanti clienti dell’Istituto. Da quel momento la faccenda deraglia, e il mix di giallo, fantascienza (entrambi generi praticati da Ely) e modernismo si manifesta sempre più come una doppia satira. Da un lato l’obiettivo è la società dei consumi, che allora stava uscendo dalla sua fase pionieristica per propagarsi in tutto l’Occidente (non a caso sono gli anni del boom italiano): la vita come commodity, come prodotto o servizio da acquistare con tanto di optional e di clausole capestro nel contratto. Dall’altro, l’utopia consumista delle nuove periferie costruite negli anni Cinquanta attorno alle metropoli americane, arcadie raggiungibili in auto e in treno dopo il lavoro, dove il breadwinner (il padre che porta a casa la pagnotta) viene confortato dalla moglie sempre impeccabile (siamo dalle parti di Richard Yates e del Philip K. Dick realistico), e si gusta l’agognato Martini.

Suburbia e consumismo sono, ovviamente,  facce della stessa società conformista e omologata, dove gli individui sono mere incarnazioni di ruoli sociali e modelli di consumo, quindi intercambiabili (e proprio sull’idea dello scambio di persona si fonda il romanzo, fino al macabro epilogo). Accade così che l’opera di un semidimenticato artigiano delle scritture di genere (che in questo ricorda un po’ Walter Tevis) ci si ripresenti oggi come monumento di un’epoca non tanto lontana, e come ammonimento per uno stile di vita che da allora si è diffuso in tutto il pianeta.