La chiamano la seconda Nakba, la fuga dal campo profughi che ha sostituito la Palestina. Yarmouk si è svuotato: in quattro anni di guerra civile il 90% dei 160mila residenti è scappato da guerra e fame. In queste settimane, dopo l’offensiva nell’Isis, la lotta strada per strada tra combattenti palestinesi e miliziani islamisti, la stampa è tornata a volgere lo sguardo a Yarmouk.

Ma dove sono finiti tutti gli altri? Dove è oggi il 90% di Yarmouk? Alle prese con una nuova Nakba, la catastrofe del popolo palestinese, come viene chiamata l’espulsione da parte delle forze sioniste nel 1948 di 850mila abitanti della Palestina storica.

«Le informazioni che abbiamo a disposizione sono ancora incomplete – spiega al manifesto Chris Gunness, portavoce dell’Unrwa, agenzia Onu per rifugiati palestinesi – Yarmouk è la più grande comunità palestinese in Siria e molti dei residenti hanno contatti all’esterno. In genere i profughi palestinesi tendono a cercare rifugio in altre comunità palestinesi: sappiamo che molti da Yarmouk si sono spostati in altri campi dove hanno amici, parenti, una rete sociale».

«Dei rifugiati palestinesi in Siria, sappiamo che 45mila sono entrati in Libano, ma le chiusure del governo hanno impedito che ne entrassero di più. Ce ne sono altri 15mila in Giordania. Non abbiamo dati certi in merito a coloro che sono fuggiti in Turchia e Siria perché l’Unrwa non è presente nei due paesi. Ma quello che è certo è che la grande maggioranza dei profughi palestinesi in Siria sono sfollati interni e tra loro molti residenti di Yarmouk».

Dentro restano circa 15mila persone a cui è quasi impossibile fornire assistenza umanitaria: «Non entriamo nel campo dal 18 marzo, se non nella zona nord – conclude Gunness – Molti profughi sfollati da Yarmouk hanno trovato rifugio in quartieri a est e sud est, fuori dal campo, nelle zone di Babila, Yalda e Beit Saham. Lì stiamo fornendo loro assistenza in centri medici e punti di distribuzione di cibo e medicinali».

Di aiuti ne servirebbero ben di più: da tempo l’Unrwa lamenta la mancanza di fondi per provvedere alle tante crisi (da Gaza alla Siria) che strangolano ancora oggi il popolo della diaspora. L’agenzia Onu ha lanciato un rinnovato appello per la raccolta di 30 milioni di dollari necessari a sostenere i civili dentro Yarmouk e gli sfollati all’interno o in Libano e Giordania.

Per questi profughi, figli di profughi, nuovamente costretti a lasciare le case che facevano da sostituto a quelle lasciate in Palestina, chiuse amorevolmente a chiave nel 1948 nella convinzione di rivederle presto, l’unico luogo in cui rinascere è la terra palestinese. In mezzo c’è Israele. Lo scorso anno, quando cominciarono a girare nei media le foto dei profughi di Yarmouk ridotti a pelle e ossa, l’Autorità Palestinese si offrì di accogliere le famiglie del campo nei Territori. Inaccettabile per Israele che della Cisgiordania controlla i confini: far entrare un solo rifugiato da Yarmouk significherebbe riconoscere il diritto al ritorno.

Solo un confine Israele controlla di meno, o almeno non direttamente. Quello tra Egitto e Gaza. Così alcuni riuscirono ad entrate nella piccola enclave massacrata da 8 anni di blocco. Da un assedio all’altro: «Mio fratello è dentro Yarmouk, riesco ad avere qualche notizia da mio nipote a Damasco. I miliziani [le opposizioni siriane, ndr] confiscano tutto quello che entra, soprattutto cibo, e lo rivendono a prezzi elevatissimi. Ho chiesto a mio nipote: come sopravvivete? Ha risposto che mangiano quello che trovano, erba, gatti. Ma ora anche i gatti sono introvabili».

Ibrahim aveva raccontato la sua storia al manifesto oltre un anno fa. A 60 anni era stato costretto di nuovo alla fuga, come suo padre prima di lui. Un rifugio Ibrahim lo aveva trovato a Gaza City, lì lo abbiamo incontrato. Sempre che rifugio si possa chiamare.

Difficile monitorare le vie di fuga dei rifugiati di Yarmouk: dei 560mila profughi palestinesi che vivevano in Siria prima del 2011 480mila sono ancora nel paese, ma 280mila sono sfollati interni. Altri 15mila hanno raggiunto la Giordania, 45mila il Libano, dove l’accoglienza non è stata delle migliori: da due anni Beirut tenta di impedire l’ingresso ad altri palestinesi, non rilasciando documenti di ingresso o ritirando quelli già consegnati.

A dicembre 2012, dopo l’inizio dell’assedio di Yarmouk, migliaia di profughi lasciarono il campo diretti verso il Paese dei Cedri. Nelle stanze dei bottoni libanesi si parlò all’epoca di un’ondata di 50mila rifugiati palestinesi da Yarmouk che si sarebbero riversati oltre il confine verso i 12 campi palestinesi in Libano. Un timore insopportabile per uno Stato fragile e attraversato da decenni da settarismi religiosi e etnici che Beirut, in diverse occasioni, ha imputato proprio alla presenza palestinese.