Apprendiamo dal sindaco de Magistris che entro l’anno ci sarà a Napoli un referendum per la «totale autonomia» della città, con l’obiettivo di avere «più risorse economiche, meno vincoli finanziari, più ricchezza, più sviluppo, meno disuguaglianze». Quindi, «è finita la pacchia per voi politici antimeridionali… al Sud dopo anni di ingiustizie, discriminazioni, depredazioni e saccheggi delle nostre risorse – umane, naturali e materiali – ci stiamo riscattando raggiungendo risultati incredibili ed abbiamo tutto da guadagnare con l’autonomia totale».

Successivamente «proveremo a realizzare, se lo vorranno anche le altre popolazioni del Sud, un referendum per l’autonomia differenziata dell’intero Mezzogiorno d’Italia».

Certo, De Magistris è già in campagna elettorale, e una tara va fatta. Ma cosa è una «totale» autonomia, da chi e per cosa? Come può dare più ricchezza e sviluppo? Colpiscono le assonanze con l’iniziativa del centrodestra, lanciata dall’ex governatore della Campania Caldoro, per un referendum su una macroregione del sud. A che fine, dopo il regionalismo differenziato in sala leghista? Con quali poteri e risorse? In quale rapporto con il resto del paese?

Quanto al governatore De Luca, prima censura senza appello il progetto di autonomia per Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna, poi presenta una richiesta della Campania per 13 materie. Se avesse voluto emblematicamente far scoppiare le contraddizioni avrebbe dovuto se mai presentare una richiesta per 23, copia conforme di quella del Veneto. Così, segnala una disponibilità alla trattativa. Ma su cosa? Sulle briciole lasciate da chi giunge al traguardo prima di lui?

Tutto perché la prospettiva del regionalismo differenziato già prima dell’approvazione ha destabilizzato il quadro politico e istituzionale. Sono due i punti dirompenti: da un lato la iniqua ripartizione delle risorse e la crescita delle diseguaglianze bene sintetizzata nella formula di Viesti della “secessione dei ricchi”. Dall’altro, il radicale indebolimento dello Stato centrale che viene anche dalle richieste relativamente più soft.

L’unità del paese diventa un valore recessivo e aggredibile. Non è più una scommessa pagante. Il ceto politico scommette invece che comunque ci si muoverà verso una frammentazione, e si posiziona per il day after. Così si spiega la corsa alla autonomia differenziata anche di regioni che in astratto avrebbero l’interesse opposto.

Negli anni ’90 la spinta secessionista della Lega fu contrastata da soggetti politici ancora effettivamente nazionali nel radicamento e nel progetto politico. Ma ora l’unico vero partito sopravvissuto è proprio la Lega. Il Pd è largamente dissolto, e persino nelle sue roccaforti di un tempo si sgretola. In Emilia-Romagna si teme il sorpasso leghista nelle prossime regionali.

La sinistra che fu non ha più la massa critica necessaria. Nel centrodestra la Lega è ormai egemone, e i vagoni di scorta non hanno la forza di portare una linea alternativa. M5S è un non-partito, e la carenza non è sanata dalla piattaforma Rousseau. Per dirne una: se si sottoponesse al voto online l’autonomia differenziata, come verrebbe assicurata una equilibrata distribuzione territoriale dei votanti in rete? Potrebbero essere tutti lombardi o veneti e per di più lo saprebbe – forse – solo Casaleggio. Comunque, basterebbe mai il voto dei 52.000 che hanno coperto Salvini a legittimare una scelta che spezza l’Italia la sua storia?

Potremmo trovarci, tra qualche tempo, a studiare il caso cecoslovacco. Il velvet divorce venne con un voto parlamentare del novembre 1992, e il paese fu diviso senza alcuna partecipazione della volontà popolare. In sostanza, la separazione – su un crinale ricchezza-povertà – fu voluta e decisa dal ceto politico, e in particolare dai leader dell’epoca.

Avvertiamo i primi refoli di un leghismo sudista, e il regionalismo differenziato messo in campo può avvicinarci alla ex Cecoslovacchia. Per evitare impazzimenti e difendere la Repubblica, la Costituzione, la nostra storia bisogna bloccarlo o correggerlo radicalmente qui e ora, nel paese, in parlamento, in corte costituzionale.

Può un paese dare di matto? Sì, e nessuno può imporre un trattamento sanitario obbligatorio. Per noi, l’unico protocollo terapeutico è la Costituzione, e il solo medico abilitato a somministrare il trattamento risolutivo è il popolo sovrano.