Del conflitto tra Stato turco e minoranza kurda si parla spesso in chiave etnica, lo scontro tra due gruppi che già separare in maniera dicotomica rappresenta di per sé un errore.

All’intrecciarsi di nazionalismi, ideologie politiche e patrimonio culturale, si aggiungono elementi economici e sociali che aggiungono sì complessità al quadro generale, ma sono determinanti quanto i primi nello spiegare la natura e la durezza di una lotta che, salvo rare parentesi, è incominciata con la fondazione stessa della repubblica turca ed è proseguita fino ad oggi, pur mutando nel tempo le condizioni ed i protagonisti.

Il sud est della Turchia a maggioranza kurda consiste in un’area che equivale all’incirca al 16% dell’intero territorio nazionale e ospita una popolazione attorno ai 13 milioni di abitanti. Questi due soli numeri sono quantitativamente indicativi dell’importanza della regione per il paese.

Sebbene economicamente più depressa rispetto ad altre regioni, ospita risorse importanti e ha una posizione strategica a cui la Turchia ed i suoi alleati non intendono rinunciare.

La Turchia può considerarsi un paese abbastanza ricco in termini di risorse idriche anche grazie al bacino dei fiumi Tigri ed Eufrate, che da soli contano un terzo del potenziale dell’intero paese.

L’importanza strategica che questo bacino riveste nell’ottica dello stato turco è sintetizzabile nel Progetto per l’Anatolia sudorientale (in turco Güneydoğu Anadolu Projesi o GAP), un piano d’investimento vecchio quanto la repubblica stessa e che ha assunto i contorni di oggi intorno agli anni ’80 del secolo scorso.

Riguarda settori quali agricoltura e irrigazione, produzione d’energia idroelettrica, infrastrutture rurali e urbane, gestione del patrimonio forestale. Consiste tra le altre cose di 22 dighe e 19 impianti idroelettrici che nei piani potrebbero fornire al paese il 23% del fabbisogno energetico. Il costo stimato del progetto ha subito nel tempo diverse revisioni e si aggira attorno ai 32 miliardi di dollari.

Per domare l’irrequietezza della popolazione locale kurda, lo Stato turco ha pensato che rivitalizzare l’economia locale, raddoppiare l’estensione dei terreni coltivabili, generare opportunità di lavoro avrebbe sopito il malcontento e placato le spinte indipendentiste.

Al contrario, il GAP è percepito da una parte sostanziale della popolazione locale come una forma di colonizzazione e sfruttamento di risorse che, nell’ottica dell’indipendentismo kurdo, non solo non appartengono allo Stato turco, ma che si realizza al prezzo della perdita d’identità e di memoria storica e culturale.

Al di là della percezione soggettiva del progetto, è innegabile l’impatto non sempre benefico sul territorio e sulla comunità kurda. La costruzione del sistema di dighe implica uno stravolgimento irreversibile dell’ambiente con impatto sulla biodiversità acquatica ed i bacini fluviali.

L’allagamento di intere vallate ha causato l’esodo forzato di migliaia di famiglie, in genere verso i maggiori centri urbani, e anche la perdita di siti archeologici. Uno dei progetti più contestati è, ad esempio, quello della diga di Ilisu, che a causa della migrazione forzata della popolazione coinvolta e della distruzione di alcuni siti di interesse storico tra cui quello di Hasankeyf, ha visto nel 2008-2009 il ritiro dei finanziamenti stranieri.

Il progetto prosegue con investimenti statali, mentre un indagine del Progetto kurdo per i diritti umani ha stimato che verranno completamente allagati tra i 50 ed i 68 villaggi rurali, mentre di altri 57 verranno parzialmente allagati i terreni, cambiando la vita di circa 25.000 abitanti della regione.

I fiumi Tigri ed Eufrate non hanno un impatto soltanto sull’economia turca, ma anche su quella dei confinanti Siria ed Iraq. Per questo sono stati causa di frequenti tensioni tra i tre paesi per anni. Siria e Iraq hanno spesso lamentato la scarsa cooperazione della Turchia nella gestione globale del bacino idrico.

La Turchia dal canto suo rivendica la risorsa idrica per soddisfare i propri bisogni alimentari e soprattutto energetici, attraverso la produzione di energia idroelettrica.

Questo perché la Turchia è un paese sostanzialmente povero di risorse fossili se comparato ai ben più ricchi vicini e deve importare petrolio e gas dall’estero, con un costo per lo Stato stimato in 60 miliardi di dollari all’anno, mentre una delle poche zone di produzione petrolifera di una certa consistenza avviene proprio nella regione del sud est, attorno alla città di Batman.

L’approvvigionamento di petrolio e gas avviene attraverso tre principali corridoi. Il primo è sul confine turco-georgiano, con i flussi in arrivo dalla Russia che rendono la Turchia sostanzialmente dipendente da Mosca dal punto di vista energetico. Il secondo corridoio è localizzato nel distretto di Agri, regione abitata da minoranze kurda e armena, che riceve il gas naturale proveniente dall’Iran.

Il terzo corridoio proviene dall’Iraq, in particolare dalla regione attorno ad Erbil, avviene attraverso gli oleodotti che varcano il confine nel distretto kurdo di Cizre, dove in questi mesi si sono svolti i più duri degli scontri tra forze turche e militanti kurdi.

Per la Turchia l’accesso alle riserve energetiche della regione kurda irachena, stimate attorno ai 45 miliardi di barili e 106 trilioni di metri cubi di gas naturale, rivestono un’importanza strategica per la diversificazione dell’approvvigionamento, garanzia d’indipendenza sul piano internazionale.

In sostanza, grazie alla sua posizione geografica la Turchia ambisce a diventare un hub energetico mondiale, specie tenendo conto dei progetti di costruzione di nuovi oleodotti in arrivo da paesi come Israele, Qatar e Iraq, diretti verso l’affamata Europa. Ma può realizzare questo sogno soltanto se mantiene saldo controllo sulla regione del sudest.

Questi confini verso Siria, Iraq e Iran sono poi importanti non soltanto dal punto di vista energetico, ma anche geopolitico. La perdita della regione significa perdita di accesso a questi tre paesi non soltanto per la Turchia, ma anche per la NATO.

Le conseguenze del conflitto turco-kurdo, in particolare dagli anni 90 in poi, hanno determinato profondi cambiamenti nella composizione sociale del paese. Si è prima assistito a massicce migrazioni dalle aree rurali a quelle urbane, non solo verso le città del sud est, cresciute enormemente e tragicamente tra gli anni ’90 e 2000, ma anche verso le grandi città occidentali: Istanbul, Smirne, Ankara.

Il conflitto riesploso negli ultimi due anni è andato a colpire quartieri e distretti che avevano rappresentato il rifugio per la popolazione migrata verso i centri soltanto venti anni prima, e che ora deve fuggire di nuovo.

La ricostruzione di queste aree devastate, gestita direttamente dallo stato attraverso espropri e procedure di emergenza, avviene in un clima di violenza e assenza di concertazione che spinge in molti a credere che questa avverrà soltanto per assecondare gli interessi del governo centrale a scapito di quelli della popolazione locale, con conseguenze che rimarranno per decenni a venire e difficilmente rappresenteranno un gesto di pacificazione.