Il Sacro Graal delle scuole e delle università è diventato il lavoro amministrativo sulla «qualità». Monitoraggio, valutazione, misurazione della qualità attraverso le classifiche di Shangai, test Invalsi elevati a strumenti della qualità intellettuale degli studenti e delle capacità pedagogiche dei docenti. Il nuovo dio che ispira le politiche dell’istruzione anche in Italia è un dispositivo di controllo della vita della popolazione elaborato nell’ultimo ventennio prima con la riforma Ruberti, poi da quella Berlinguer-Zecchino e sviluppato con le riforme Moratti e Gelmini.

Pur con sfumature diverse, legate ad una diversa concezione della scuola dell’infanzia e a una diversa centralità della scuola pubblica, l’accordo tra centro-sinistra e centro-destra è maturato sul terreno di un’adesione acritica ai principi quantitativi, positivisti ed econometrici del neoliberalismo oggi incarnati nella cultura della «valutazione» e della meritocrazia. Questo è lo sfondo ideologico a partire dal quale sono state costruite le «larghe intese» che gestiscono la crisi economica e politica dal 2011, nel tentativo di istituire una forma di democrazia autoritaria. Ancor prima dei patti politici, l’istruzione è stato dunque il campo di applicazione di un’intesa che mira a professionalizzare i saperi come antidoto alla disoccupazione e alla precarietà giovanile e a liquidare i saperi complessi giudicati inutili per la conquista di un’attività redditizia nell’ambito delle professioni.

Ha ragione Giorgio Mele, che ha da poco mandato in stampa con Ediesse una lineare ricostruzione della storia sulla scuola pubblica dall’Unità alla riforma Gelmini (Per la scuola di tutti. Breve storia della scuola italiana, pp.151, euro 12), a giudicare questo lungo ciclo a partire dal legame tra politica e società, e tra movimenti sociali e studenteschi e riforme dell’istruzione. Se non lo avesse considerato, infatti, oggi non si capirebbe la violenta aggressione della destra berlusconiana alla scuola pubblica (taglio di 8,4 miliardi di euro alla scuola e di 1,1 all’università nel 2008), finalizzata alla cancellazione delle tutele sociali e dell’uguaglianza delle opportunità, due valori dello Stato sociale in cui è fiorita la scuola di massa a partire dagli anni Sessanta. La sua ricostruzione permette inoltre di spiegare la storia anomala di un paese che ha tagliato gli investimenti sull’istruzione e sulla ricerca negli anni in cui è esplosa la crisi globale, mentre i paesi Ocse decidevano di rafforzare l’economia cognitiva. Per Mele questo è il risultato di una persistente cultura classista nelle destre italiane.

Questo approccio non permette tuttavia di spiegare a fondo le ragioni che hanno spinto il centro-sinistra a promuovere con il primo governo Prodi la trasformazione dell’istruzione pubblica secondo i canoni della governance neoliberale del «Processo di Bologna». Mele registra tuttavia il fallimento di questo modello rappresentato dalla riforma dei cicli didattici, il cosiddetto «3+2»: un modulo che ha moltiplicato gli insegnamenti provocando un vistoso abbassamento qualitativo dell’insegnamento. Un fallimento anche dal punto di vista «produttivo»: basti guardare le statistiche dei laureati e degli immatricolati all’università. Una volta giunta al termine di questa parabola, la sinistra potrà ancora rivendicare acriticamente un ritorno alla scuola «pubblica» senza rimettere in discussione la trasformazione radicale di questo «pubblico» in una gestione manageriale e privatistica dello Stato che funziona da fornitore di servizi per l’impresa?