Disse una volta Cesare Cases, riguardo alla questione se i giornalisti possano essere degli scrittori, che dal mestiere di giornalista si può imparare a dire in breve le cose che si sanno oppure a dire con prolissità le cose che non si sanno affatto.

Quanto a ciò, Luigi Pintor è stato senz’altro un grande giornalista (e una volta in tv, richiesto di un parere su chi fosse davvero il più grande, Enrico Berlinguer rispose che era proprio quel suo vecchio compagno) ma Luigi Pintor lo è stato per il fatto che era uno scrittore senza possibili aggettivi. E proprio per questo uno scrittore straordinario. Si dirà che la sua produzione fino al ’91, l’anno in cui esce da Bollati Boringhieri Servabo  piombando nell’acqua cheta delle nostre lettere, è costituita soltanto dagli editoriali usciti prima su «l’Unità» e poi dal ’71 sul «manifesto», ma lo stesso si potrebbe dire, sospettando altrettanta noncuranza e dispersione, di uno scrittore che molto gli somiglia nel temperamento e nello stile, Karl Kraus, che passò la vita a pubblicare articoli e aforismi su una rivista viennese, «Die Fackel», il cui uditorio non era più grande di quello garantito al «manifesto».

A tanta distanza di spazio e di tempo, nella disparità dei riferimenti politici e culturali, il profilo stilistico e la scrittura che sembra scaturire da un senso primordiale di responsabilità verso il lettore, appaiono singolarmente affini, come la chiarezza traslucida, la brevitas incisiva e il giro di frase che sa guadagnare una vera e propria partitura metrica, la postura ironica (e dunque, per etimologia, portata al distacco) che può tuttavia abbreviare la distanza, calcolatamente, in una punta di sarcasmo, quel «sarcasmo appassionato» di cui disse Gramsci, il modello mai proclamato ma sempre presente, in termini di etica intellettuale, nella sua vicenda di uomo politico e di scrittore.

La chiarezza pungente, lo scatto percettivo che innescava una pagina sempre mantenuta ad altezza d’uomo, e cioè nell’orizzonte del lettore e/o interlocutore, non erano per Pintor un dato di partenza bensì il risultato finale di una sofferenza ai limiti del patema psicofisico. Lo scrivere per lo più brevi manu su frustoli millimetrati o fogli di fortuna, il rigetto della crepitante dattilografia come, in seguito, della musica da acquario del computer, non erano il segno di una sua privata insofferenza quanto, e soprattutto, il riflesso di un’idea fondatamente aristocratica della scrittura, la quale, per lui, era una impellenza che andava sempre dominata e quindi debitamente ripensata e lavorata.

Nulla è infatti più lontano dall’immediatezza o dai riflessi condizionati del giornalismo quotidiano, di una pratica della scrittura che è puro atto di necessità e mai di vanità ovvero, in altri termini, è il gesto fondato e interiormente vincolato per cui prendere la parola implica integrale responsabilità anche al cospetto di una materia sordida come la politica espropriata alle persone, blindata nel Palazzo e degradata a politique politicienne, purtroppo il pane quotidiano di Pintor: si direbbe che ci fosse qui, da parte sua, un rifiuto preventivo del rumore di fondo e del clamante vaniloquio cui è ridotto il traffico della informazione e l’ecosistema dell’industria culturale.

Ma che, per formazione ed elezione, egli fosse un musicista chiunque l’avrebbe intuito dalla prosa smagliante, classica senza essere levigata, che abita i libri della sua maturità, da Servabo, appunto, a La signora Kirchgessener (’98), da Il nespoloIl nespolo (’01) a I luoghi del delitto (’03), steso in punto di morte. Si tratta di una autobiografia oggettivata e insieme dissimulata. Sono libri, disposti in sequenza ma legati sottotraccia ad un unico centro pulsante, dalla cui spoglia essenzialità (sia pure deprivata di nomi propri e di precise indicazioni spazio-temporali) traspare la vicenda di un uomo del XX secolo per assumervi la forma di una allegoria.

Il fratello ed erede di Giaime, l’uomo della Resistenza e di una pluridecennale militanza politica, non è affatto, e sembrerà paradossale, uno scrittore di memoria in quanto la sospetta per quello che è, un flusso troppo rettilineo, una ambigua e paralizzante ricompensa, forse un esorcisma.

Pintor, viceversa, è un poeta del ricordo, un ostinato cercatore delle entità parziali e talora corpuscolari che se tornano al presente riesplodono con violenza meteoritica. I suoi sembrano ricordi muti, anonimi e persino fungibili, ma proprio per questo essi chiedono di essere agiti, adempiuti, non esclusi quelli che provengono dall’esperienza più dolorosamente intima. A un certo punto di Servabo è scritto, per esempio: «La malattia mostra più di ogni altra cosa che il mondo è diviso in due. È sinonimo di separazione e solitudine. […]Non c’è in una intera vita cosa più importante da fare che chinarsi perché un altro, cingendoti il collo, possa rialzarsi».

Il 12 giugno del 1984, in clausola allo stupendo necrologio di Enrico Berlinguer intitolato Ad un amico, aveva detto di non potersi distaccare da quella immagine vacillante sul palco di Padova né dal rammarico di non essere stato lì, a sorreggerlo. È una immagine di pietas semplice e laica, meravigliosamente umana.

Forse lui lo avrebbe negato, ma Luigi Pintor somigliava alla sua scrittura.