Basta pensarci un attimo, e la relazione tra prigionia e scrittura appare subito qualcosa di ovvio. Se non ci fosse una punta di malizia, verrebbe naturale dirsi: che altro potrebbe fare una persona costretta a passare tanto tempo in un luogo così privo di svaghi? Pensarlo, invece, può essere il segno di scarsa attenzione sugli effetti di una prolungata libertà negata, coi ritmi imposti, in spazi angusti, con compagnie non propriamente scelte e in assenza di tante cose che appartengono alla vita. E anzi viene da pensare che scrivere in quelle condizioni, anche senza badare troppo allo stile, può essere una prova di tenacia e resistenza; che la scrittura può essere un rifugio ma faticosissimo; che può essere un prolungamento dei sensi e del corpo ma doloroso. Per questo scrivere in stato di prigionia potrebbe essere il segno di una vocazione profonda alla scrittura, anche quando sia semplice corrispondenza epistolare.

Certo i motivi per ritrovarsi nelle prigioni e nei recinti sono i più vari, perché ci si può stare per colpevolezza ma anche per persecuzione, con accuse arbitrarie di delitti arbitrari, o benché totalmente innocenti, o per restrizioni personali motivate dalla sicurezza, come il confino o gli arresti domiciliari. E quant’è diverso il motivo, altrettanto diversa sarà la psicologia del detenuto (senza prendere in considerazione i temperamenti personali), la voglia di resistere o di far passare il tempo, e di trovare nella scrittura una qualche forma di evasione.

Sono molti i casi di detenzione «letterariamente felici», e non val qui la pena di ricordarne alcuno perché a ciascuno verranno facilmente in mente occasioni di questo tipo, di scritture fatte nel carcere e dal carcere come altre fatte sulla prigionia e dopo la prigionia. Non si sa se sia giustificato pensare a uno specifico genere letterario, rischiando di e senza saper bene se si debbano escludere raccolte poetiche, riflessioni filosofiche, romanzi e altro ancora, che non parlino della prigionia benché composti in regime di restrizione, e quindi ne portino tracce evidenti.

Non è questa l’occasione per estendere né per arginare la complessità di questa prospettiva, evidentemente composta di tasselli diversi e amplissima nei tempi. Tuttavia è sotto questo largo cappello, fatte salve tutte le differenze evidenti e nell’intenzione di salvaguardare le meno palesi, che deve essere pensata l’esperienza e il racconto di chi durante la Seconda Guerra Mondiale fu prigioniero (sia nei campi del nord Europa, catturati dopo 8 settembre ’43 dall’esercito tedesco, sia negli Stati Uniti o in India o in Sud Africa, dove per lo più finirono i soldati catturati in nord Africa dall’Esercito Alleato) ed ebbe la forza, prigioniero, di raccontare e documentare per iscritto la propria disavventura. Tanto che si può azzardare una comparazione: così come la nostra storia risorgimentale ha come sua parte non indifferente la memoria del «carcere patriottico», e l’ha fatto cifra di distinzione e valore con uno spirito epico capace di eleggerlo a simbolo della storia di un popolo, così le durezze della prigionia di guerra risalenti al Secondo conflitto mondiale possono essere raccontate come parte integrante della storia di Liberazione.

L’argomento di questo intervento è gli Scrittori nel recinto. Va detto subito e chiarito che per «scrittore» si intende qui ogni «scrivente», sebbene poi in quei campi di prigionia, in Europa come in America, transitarono anche uomini che già erano o poi si sarebbero affermati letterati: Roberto Rebora, Giovannino Guareschi, Giuseppe Berto, Dante Troisi, solo per ricordarne frettolosamente alcuni. E per quanto pochi, ben integrati a un più nutrito esercito di scriventi, autori di lettere e diari che sono evidentemente un patrimonio culturale da custodire, restaurare e possibilmente diffondere, intriso com’è di vita vissuta. Sarebbe bello metterne in luce l’intrinseco valore letterario, quando si intenda la letteratura non solo come la produzione di eccellenze bensì anche come lavoro collettivo e come un modo di stare insieme. Perché è così che va immaginata quella diffusa scrittura clandestina: la volontà di rimanere e come isolarsi nello spazio privato del proprio taccuino di fortuna commista alla consapevolezza che le cose scritte fossero l’esperienza di tutti, con la consapevolezza di non poter vantare alcuna sostanziale originalità. E con poca, se non proprio alcuna, volontà letteraria.

Che lo scrivere sia la mediazione di un’esperienza comune e condivisa appare facilmente in questo preciso recinto del campo di prigionia, ma appartiene a molti meccanismi della trasmissione letteraria e al consumo letterario. Togli la mediazione del mercato, con le sue necessarie invenzioni di marketing e packaging, e senza tare rimarrà d’evidenza cristallina il fatto che il bene primario della comunicazione letteraria scritta è lo scambio diretto, benché non necessariamente univoco, tra persona e persona.

Il caso dei diari di Guareschi è particolarmente illuminante. Nel suo grand tour di campi nordeuropei, allo scrittore era stato abbastanza riconosciuto il ruolo di «cantore»; e oltre ad alcune testimonianze che lo identificano come il «letterato del gruppo», sta in alcune sue pagine di diario il senso che dava a questo ruolo, anzi a questo «officio». Venuto il momento di stampare i diari, Guareschi non volle rendere pubblico il suo diario personale ma ciò che dal suo diario personale egli stesso aveva estratto per renderlo disponibile e fruibile insieme agli altri compagni. Così il Diario clandestino (1949) è verace cronaca della prigionia in quanto testimonia il modo e la forza con cui l’elaborazione letteraria poté essere strumento collettivo per gestire le emozioni, curare le capacità di resistenza del gruppo e insomma fare da tramite per un rafforzato rapporto di solidarietà. Tanto che del diario personale non volle farne più nulla, mentre Guareschi considerava davvero vere solo quelle pagine che erano state già ascoltate, performate e vissute nei campi: e infatti furono quelle a essere pubblicate.

Una prima differenza tra scrittore e scrivente, almeno di quelli rinchiusi nel recinto, sta nel diverso uso immediato della scrittura. Ma quella dell’uno e dell’altro sono legate in maniera viscerale al momento in cui accadono, vengano scritte o lette. Certo, si arricchiranno, una volta donate al futuro, di nuovi valori memoriali, documentari e narrativi; tuttavia è la prossimità al corpo imprigionato a rendere quelle scritture essenziali.

Se si tengono uniti questi due elementi, la collettività della scrittura e la prossimità dello scrivente all’esperienza, la potenza del testo diaristico o epistolare è subito evidente. E forse non tanto nei fatti di cui è documento ma per essere una narrazione in stato larvale, per essere una scrittura che appartiene a una specie di limbo letterario a partire dal quale tutto ancora può essere detto e narrato. In fondo, l’attrattiva che questi testi esercitano su di noi può essere fatta risalire anche al fascino delle forme incompiute (verrebbe da pensare a I Prigioni di Michelangelo) che sembrano sempre ricche di cose narrabili.