Due giorni memorabili per le due Unioni a rischio, quella britannica e quella Europea. Ieri il governo di minoranza dell’Snp di Nicola Sturgeon ha ottenuto per dieci voti – 69 a 59 – l’assenso del parlamento scozzese alla richiesta di un nuovo referendum sull’indipendenza grazie ai voti dei verdi. Oggi è invece la data fatidica per l’Ue nel suo complesso: inizia l’odissea della Gran Bretagna oltre le colonne d’Ercole del post-Ue. Attraverso una letterina indirizzata al presidente Donald Tusk, Theresa May applica l’ormai famigerato Articolo 50 del Trattato di Lisbona del 2009: il procedimento di uscita dall’Unione tratteggiato poco più che per proforma, tanto era ritenuto improbabile che qualcuno volesse mai avvalersene. Ma pochi anni fa sono ormai secoli fa.

DUNQUE I PROSSIMI MESI si prospettano cruciali per l’essenza stessa costituzionale di questo paese. Holyrood, il parlamento scozzese, ha votato così in risposta all’umiliante mancanza di consultazione da parte del governo May circa i termini della negoziazione del Brexit. Finora, nessuno dei parlamenti devoluti di Scozia, Galles e Irlanda del Nord è stato chiamato in causa da Westminster su cosa effettivamente sarà il futuro fuori dell’Ue. Il 62% degli scozzesi ha votato per restare nell’Ue e Sturgeon vuole assicurazioni che Brexit almeno non significhi uscire dal mercato unico.
Ma questa naturalmente è un’incognita, soprattutto vista la postura nazional-muscolare in salsa Ukip adottata da May: ora ha ammorbidito i toni, ma la premier inglese ha più volte affermato di essere pronta a uscire senza accordo, giacché la permanenza nel mercato unico presupporrebbe inghiottire la libera circolazione di cittadini dell’Ue, la cui distorta rappresentazione da parte dell’Ukip e dai tabloid eurofobi ha fatto sì che prevalesse la paura dell’immigrazione come fattore decisivo nel risultato referendario.

IL CLIMA FRA EDINBURGO e Londra è decisamente in via di raffreddamento. A creare attrito è anche il periodo in cui Sturgeon vorrebbe si tenesse il cosiddetto Indyref2: entro due anni, cioè prima della fine delle negoziazioni con l’Ue. Non se ne parla nemmeno, almeno prima della fine del negoziato, ribatte ferma May. Shakerando due parti di Churchill con una di Farage, ha parlato del quasi ex-Regno Unito come di una «forza inarrestabile» che Brexit renderà «ancora più forte». Nessuna sorpresa se l’incontro lunedì a porte chiuse fra le due premier abbia segnato una nuova frontiera nella criogenia, con May risoluta a non concedere nemmeno un millimetro e Sturgeon ormai lanciata verso il nuovo referendum sull’indipendenza dopo quello perso nemmeno troppo di misura nel 2014.

NATURALMENTE, IN MEZZO a tanta retorica che puzza sempre più del peggior ’900, il rischio di precipitare fuori del mercato unico è più reale che mai. L’ironia è che mettere la sordina all’immigrazione europea interna – già in calo almeno quanto a richieste di lavoro in un sistema sanitario nazionale che sopravvive grazie ai lavoratori dell’Ue – finirebbe comunque per aumentare quella extraeuropea. Per non parlare del panico che scorre nel sottosuolo dell’impresa, che costringe May a cercare di concludere freneticamente accordi commerciali anziché governare.
Se c’era un paese Europeo capace di snobbare l’Ue in tutta la sua grandezza, quello era proprio la Gran Bretagna, in fin dei conti il paese meno europeo d’Europa. Theresa May è piovuta in questo ruolo ingrato di traghettatrice verso l’ignoto senza nemmeno immaginarselo: può far ricorso a tutta la retorica churchilliana che vuole, eppure non deve esserle sfuggito il sospetto che tutto sommato il vecchio eurofilo e irriducibile nemico di Thatcher Michael Heseltine possa aver ragione quando l’accusa di aver aiutato la Germania a «vincere la pace»: a riconciliarsi cioè per l’ennesima volta con il proprio ruolo di superpotenza egemone europea.