Ancora vivi. Dimostrare di essere ancora all’altezza del proprio nome anche senza Jeff Hanneman. Tirare fuori tutta la rabbia e la grinta che agli Slayer non è mai mancata – e ha impedito loro di diventare dei Metallica – e riprendere ancora una volta in mano in mano il proprio destino. A sei anni di distanza da World Painted Blood, l’ultimo disco per la American e dopo la rottura con Rick Rubin, e senza nemmeno contare i malumori provenienti dal basso alla notizia che la band avrebbe continuato anche senza il suo chitarrista e compositore, Tom Araya e Kerry King, con la collaborazione di Paul Bostaph e Gary Holt, hanno riportato la macchina da guerra in studio firmando con Repentless (il primo per la Nuclear Blast) il disco che forse nemmeno il più acritico dei fan avrebbe osato sperare.
Il vero banco di prova, però, per una band come gli Slayer, è ovviamente il palco. Attesi dunque con amore, venerazione, fanatismo, curiosità e anche sospetto, Tom Araya e soci si sono imbarcati nell’ennesimo tour europeo coinvolgendo nell’impresa i norvegesi Kvelertak, artefici di un dignitoso ma prevedibile black&roll e i venerandi Anthrax. Fautori di un suono muscolare, ma non particolarmente originale, i Kvelertak tengono il palco senza complessi d’inferiorità. Le prime file pogano convinte.

Protagonisti della stagione thrash, gli Anthrax si presentano con il ritrovato Joey Belladonna ma senza Charlie Benante bloccato da una sindrome del tunnel carpale e sostituito da Jon Dette (Evildead, Testament). Annunciati da The Mob Rules dei Black Sabbath periodo Ronnie James Dio, i newyorchesi partono in quarta come solo loro sanno fare. Schiantano sul pubblico una roboante e agilissima versione del classicone Caught In A Mosh che scatena un vortice di corpi poganti da panico. È un attimo: sembra il 1987. L’entusiasmo, il sudore, la passione distruggono ogni dubbio. Quelli sul palco sono musicisti veri, che credono in quel che fanno.

Si divertono ancora e sanno come trascinare il proprio pubblico. L’intreccio fra la classica ugola metal di Belladonna e i controtempi hardcore funziona come il primo giorno. Con una passione working class, gli Anthrax snocciolano i pezzi forti del loro repertorio. Madhouse, Antisocial (cover dei Trust), una celebratoria Indians e l’inedita, strepitosa Evil Twin presentata da Scott Ian in italiano: «vi farà cagare sotto». Oxfordiani non lo sono mai stati, gli Anthrax. Prima della chiusura, un omaggio a Ronnie James Dio e Dimebag Farrell. E tutto l’Alcatraz, nessuno escluso, alza le corna al cielo. Chiude il set Among the Living e non ce n’è per nessuno. Si poga come se dopo gli Slayer non dovessero mai suonare. In questa notte il rock’n’roll si chiama Anthrax ed è giusto così. Dosi massicce di AC/DC per ingannare l’attesa del cambio palco. Poi si abbassano le luci e tutto diventa rosso.

Gli Slayer azzannano subito il pubblico alla giugulare. Repentless viene sputata via senza pietà. Il volume è altissimo. Il suono compatto e spietato. Araya indossa una maglietta con il logo tricolore della sua band. Saluta il pubblico e ringrazia commosso i presenti. Si raccomanda di prestare attenzione a non schiacciare le prime file («Andate indietro, dice in italiano»). La scaletta presenta versioni ferocissime di brani dell’ultimo disco come la nerissima Vices il cui ultimo verso («Let’s get high!») viene urlato da Araya come se quella di Milano fosse l’ultima tappa del tour. When the Stillness Comes concede qualche secondo di tregua, ma l’uno-due Die By the Sword seguita da Black Magic (entrambe tratte da Show No Mercy, il primo album) uccide. Hell Awaits è un macigno. World Painted Blood spietata. Season in the Abyss è uno degli apici della serata. Raining Blood scatena ancora di più, se possibile, l’entusiasmo dei presenti.

Il finale è affidato a Dead Skin Mask e, attesissima, Angel of Death, il brano che tante polemiche e incomprensioni è costato alla band. Il pubblico reagisce come se fosse colpito da una violentissima frustata apocalittica e trasforma l’Alcatraz in un mosh pit furibondo che si propaga come un’onda tellurica per tutta la sala. Gli Slayer sono vivi. E solo gli Slayer sanno trasformare in maniera così perfetta un concerto nell’attestato di esistenza di una comunità. Ed è questa senso di appartenenza a una comunità che celebrano gli Slayer. Gli Slayer che non hanno paura della morte.