Sotto il cielo perennemente assolato dell’Islanda, il giovane Ari deve ricostruire la sua vita: la madre è partita per l’Africa con il nuovo compagno, e lui deve lasciare Reikjavik per tornare a vivere con il padre – con cui non parla da anni – nel piccolo paese del nordovest in cui è nato e ha trascorso l’infanzia.
In Passeri, secondo lungomentraggio di Rùnar Rùnarsson, si ribalta la prospettiva del film d’esordio che il regista aveva presentato alla Quinzaine des Realisateurs di Cannes nel 2011 – Volcano – in cui il protagonista, un anziano pescatore, si era progressivamente allontanato dalla sua famiglia e cercava di fare ammenda delle mancanze del passato.

Nel film che esce oggi in sala vediamo invece il mondo dal punto di vista di un adolescente, che per poter compiere il passaggio all’età adulta deve trovare il modo e la forza di perdonare le mancanze di chi – come il padre assente e la madre che lo abbandona – avrebbe dovuto indicargli la via. È attraverso gli sguardi che Rùnarsson costruisce la storia di formazione di Ari – dal timore di guardare negli occhi la ragazza di cui è innamorato alle occhiate di soppiatto sotto la doccia per paragonare le rispettive «doti» con il nuovo amico.
A Passeri manca però il pathos di Volcano, dove il regista ci rendeva più partecipi della lotta di un uomo la cui storia era già scritta.