Il titolo, Nel paese dove gli alberi volano, fa pensare a una fiaba o a un gioco da bambini, di quelli che scoprono mondi e liberano personaggi fantastici persino in una stanza. Ma l’Odin Teatret è stato anche questo, uno spazio delle emozioni, della ricerca e dell’invenzione di nuovi orizzonti prima che il «luogo» fisico, l’altrove possibile, o meglio uno dei tanti, in cui reiventare il teatro, la scena, le forme di narrazione della realtà. E al gruppo fondato da Eugenio Barba è dedicato il secondo film (ora in sala dopo la presentazione alla Mostra di Venezia) con cui Jacopo Quadri, stavolta insieme a Davide Barletti dei Fluid video Crew compone la sua personalissima «storia» del teatro seguendo i fili del padre, il critico teatrale Franco Quadri, per entrare in un mondo sempre presente nella sua vita e al tempo stesso sconosciuto che dopo la sua morte ha voluto guardare da vicino.

 

 

 
Il primo «capitolo», La scuola d’estate, ci aveva portati da Luca Ronconi, non sui palcoscenici dei suoi grandiosi spettacoli che hanno cambiato l’idea della regia novecentesca, ma dentro all’insegnamento, le lezioni per i giovani attori al Centro Teatrale di Santa Cristina. Un fare che riguarda la trasmissione di un’arte, e che nel film apre una toccante dimensione intima, quasi privata dell’artista seppure schermata sempre dall’agire teatrale. Il maestro che dice a quei giovani come essere in scena, come modulare sfumature delle parole e dei sentimenti, timbri della voce, movimenti invisibili, presenza, essere e intanto lascia trapelare qualcosa di sé, del suo essere nel quotidiano «semplice» della vita.

 

 

 
La dimensione del rapporto con Eugenio Barba è un po’ diversa. E diverso è anche raccontare oggi quell’esperienza che fa parte della formazione di molti artisti – uno per tutti Pippo Delbono – ed è radicata profondamente nel sentimento di un’epoca, gli anni Sessanta e Settanta di sincretismi tra arti, ribellione, utopia, desiderio/necessità di rovesciare la struttura verticale del sapere. Quando Barba, brindisino ma originario di Gallipoli, fonda l’Odin prima a Oslo trasferendosi poi a Holstebro, in Danimarca, interpreta a suo modo quelle magnifiche spinte. «La comunicazione non è soltanto uno tsunami di parole, è molto altro; è qualcosa che ti permette di penetrare in quelle conoscenze che lo spettatore neppure sa di avere» dice Barba oggi. Il teatro come corpo, scoperta delle altre culture, rito sciamanico, viaggio ma soprattutto risposta politica e strumento di cambiamento.

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Inquadrare l’Odin in una relazione netta non sembra dunque possibile. Al di là del suo fondatore,e dei nomi storici che ne fanno parte, l’Odin è una realtà collettiva, vive negli spettacoli, e nelle molte compagnie e gruppi nati intorno alla sua esperienza, negli artisti che vi sono cresciuti. È più una traccia, un segno che rimane nell’esperienza e nella formazione di chi è passato lì ed ha appreso qualcosa tra quelle mura di una vecchia fattoria divenute leggendarie.

 

 

 
Così gli autori scelgono un’occasione speciale: la preparazione della festa del cinquantesimo anno. E seguono Eugenio Barba e la sua folta massa di capelli bianchi, nella frenesia dei molti incontri, prove, piani organizzativi che precedono l’evento.
Gli artisti, bambini, ragazzi, adulti occupano le strade della cittadina danese che con la sua presenza l’Odin ha profondamente cambiato. La «Festuge», la Festa, rimanda a un rito pagano di morte e di rinascita, si mescola alla vita, porta scompiglio, festa, poesia.
Barba ha invitato danzatori balinesi e kenioti, che ballano con i bimbi della classe di balletto e con i violinisti classici. L’incontro e il cambiamento sono sempre la sua sfida, quella dei registi è farci scoprire l’ inesauribile gioia di meravigliarsi.