Peter Del Monte è uno di quei registi «eccentrici» del nostro cinema che ha attraversato, e continua a attraversare nei diversi decenni, dagli anni Settanta degli esordi (Irene Irene, ’75) ai difficili anni Ottanta (Piccoli fuochi), poi i Novanta fino agli anni zero. Le sue storie sono difficilmente riconducibili a una sola «etichetta», a un genere, a una tendenza; possiamo dire che è un narratore di personaggi, e di relazioni fragili, che ama avventurarsi in universi sentimentali in bilico nei quali scoprire, e sperimentare, la tensione delle proprie immagini. Ha un tocco speciale per questo Del Monte, insieme a una predilizione per le figure femminili, per il loro «mistero», osservato dal prisma maschile, e per i bambini. Dall’incontro tra questi mondi, adulti e più giovani, e dalla confusione che ne nasce scaturiscono le sue cose più belle, Piccoli fuochi, appunto, o Piso Pisello – che mette di fronte un giovane padre e il suo bimbo. Ancora, saltando in avanti, l’on the road più emozionale che geografico Compagna di viaggio (’96). Sempre con la capacità, anch’essa molto particolare, di far vivere gli attori fuori dai loro ruoli, di liberarli quasi guidandoli con discrezione (controllatissima) nei gesti, nei sorrisi, nelle lacrime.
Questi sono anche i momenti magici di Nessuno mi pettina bene come il vento, un titolo «rubato» alla poetessa Alda Merini, il cui apparente paradosso sembra contenere il cuore poetico del film. Ma come, si dirà, non è il vento quello che scompiglia, che fa volare via i ciuffi dei capelli anche più docili, e impazzire quelli ribelli? Ma è pure il vento, se lieve, che accarezza il viso scompigliando appena, sempre quel tanto però che fa muovere le cose.
Il vento lo ha chiuso fuori dalla finestra Arianna (Laura Morante), scrittrice affermata che ha scelto una specie di esilio nella casa sul litorale romano (siamo a Santa Marinella) dopo lo scandalo che ha coinvolto il marito, un politico francese molto conosciuto, tra i libri e gli studi su Anna Kulisciov. Finché non le capita in casa una giornalista, col pretesto di intervistarla – vuole saperne in realtà di più sul marito – con sé ha la figlia, una ragazzina di undici anni, attaccata al cagnolino, che all’improvviso le chiede di restare lì. Le donne sono spiazzate, e la padrona di casa, con stupore di sé accetta. La ragazzina sembra timida, di poche parole. A cena parlando di sé dice che non ha amici: «Non risulto simpatica».
Si chiama Gea (la brava piccola Andreea Denisa Savin) come la terra, le piaccioni i ragni perchè sono brutti, e ne disegna in continuazione. Eppure nonostante quella sua fragilità apparente, la piccola ha una sua forza caparbia, il «coraggio» di buttarsi nelle cose, di rischiare che spiazza la donna. Sembra lei la più «matura», o forse la più capace di affrontare le sfide del mondo. L’altra se ne sta in disparte, e si innervosisce facilmente specie quando sotto casa arrivano i ragazzini del paese con la birra, le canne, la tecno a palla, e la noia dell’adolescenza che si sente in gabbia. Gea li guarda incantata, le piacciono perchè sono liberi dice. Più che altro però le piace il biondino con gli occhi azzurri – il bertolucciano Jacopo Olmo Antinori – che è anche quello più distante dagli altri. Vende fumo, e cocaina a un signore decadente e decaduto, e quando ce l’ha, guerre permettendo, lo fa felice col «principe» delle droghe, l’oppio.
In questa triangolazione di sguardi, e nel movimento che spinge l’uno verso l’altro i tre personaggi, la donna, la ragazzina, il ragazzo sul confine di un’immaginaria soglia, respira il film. Del Monte è regista che trasforma in immagini gli sfaldamenti improvvisi, i sussulti del cuore, la tenerezza e lo spavento. È questione di equilibri delicatissimi, e di desiderio. Ecco dunque una piccola donna che dice sicura che basta guardarsi per sapere tutto l’uno dell’altro. E una donna matura che invece ha bisogno delle parole. Nel mezzo di questo nuovo controcampo adulto/bambino, forse si capovolgono i ruoli, e il romanzo di formazione diviene forse reciproco.
Un film sull’amore, dunque, sull’innamoramento alla fine dell’infanzia, quando il principe e la principessa possono ancora fuggire via tra sogni da fiaba e incubi angosciosi. E sul pregiudizio della paura, sulla vita che non sempre insegna, sugli incontri imprevisti e la capacità (residua) di mettersi in discussione. Vale qui il tocco speciale del regista, più Gea che Arianna, o un po’ entrambe, che quando è libero regala epifanie: un ballo silenzioso, una macchia aliena sul muro, la bimba che spavalda mette a tacere il bulletto mostrandogli le mutandine. Però nel «sistema» cinema-italiano non funziona così, si deve chiudere, far tornare i conti. Abbiamo una sceneggiatura che mette «ordine» (con Del Monte l’hanno scritta Gloria Malatesta e Chiara Ridolfi) anche a rischio di soffocare la libertà della regia.
Bastava quel controcampo di donna e di bimba, mai giudicante nelle sue infinite sfumature di rabbia, silenzi, caos, ordine. E invece: cosa c’entra che la madre del ragazzo deve essere una prostituta? O l’amico della scrittrice devastato dalla gelosia della compagna? Sfumature amorose? Più stereotipi non necessari. E nel corpo a corpo con questo «apparato» non sempre il vento ce la fa.