Saving Mr. Banks, il film che ha chiuso il London Film Festival, è un viaggio nella Hollywood degli anni 60’. L’impero Disney era all’apice e Walt cercava di accaparrarsi le favole più belle; tra queste, dopo 20 anni di trattative, Mary Poppins. L’autrice, Pamela Lyndon Travers, avrebbe preferito mandare Walt Disney a «far volare un aquilone», ma costretta dai molti problemi economici accetta, e si trasferisce Los Angeles. Le liti tra i due diventano leggendarie. Sospettosa, con i suoi paradigmi e la lezione junghiana, Travers sembra non avere nulla a che fare col mondo di Disney. É severa, introversa, detesta le canzoncine e i coretti; sorseggia il the inglese con il mignolo sollevato e snobba i dolci colorati di crema, le gelatine e le torte rosa. I bambini, sentenzia, non vanno illusi, la vita è dura e non basta una pillola a risolverne i problemi, o peggio ancora una parola magica.

La rigidità di Travers affonda nel suo passato. Almeno secondo il film, che ci conduce con una serie di flashback, all’infanzia della scrittrice in Australia. Soprannominata Ginty, diventa adulta, troppo presto. Ha sette anni, quando salva la madre dal suicidio, e vede morire il padre, impiegato di banca, ucciso dall’alcool e dalla tubercolosi. Mary Poppins è la zia che, come per magia, riorganizza la vita della famiglia. Però nel mondo di Disney tutto sparisce. Dopo una visita agli studios, con il charming Walt, l’accordo viene raggiunto, e la mamma di Mary Poppins accetta i pinguini animati che ballano, inizia a ballare e cantatare pure lei … Saving Mr. Banks è la prima coproduzione Disney-Bbc. La regia dell’australiano John Lee Hancock, convenzionale nella forma, si basa su una macchinosa struttura narrativa, confusa nel ricostruire il passato. Il film si regge grazie agli attori, a cominciare da Emma Thomson, bravissima nel ruolo di Travers.

La scelta di Saving Mr.Banks per chiudere il festival non è sembrata molto originale. Quest’anno, il pubblico del LFF non ha risposto con l’entusiasmo di sempre, e lunghe file al botteghino del National Film Theatre sono una memoria anche se gli incassi sono sempre positivi. C’erano posti vuoti nelle sale, forse gli spettatori si sono persi nei meandri delle 16 sezioni, o forse aspettano che i film escano in sala – la maggior parte dei film del programma ha una distribuzione nazionale.

Non è stato facile trovare e scoprire del «nuovo» in questa edizione, quel cinema che fatica ad essere distribuito nel territorio. Le sorprese sono rimaste in poche sezioni. Nel programma «Freaks ‘N’ Geeks» una selezione sul cinema di genere, e storie di protagonisti eccentrici. Spicca l’originalissimo L’Assenza di Jonathan Romney, che racconta la storia di un uomo ossessionato dalla presenza di un sosia in un film italiano d’archivio dei primi anni 60. La prima volta lo guarda a casa, in televisione, mentre cena con la fidanzata. Inizia l’ossessione. Cerca di rivedere il film, lo trova in un cinema d’essai. Lo guarda ancora con la fidanzata, ci torna da solo molte volte …

L’assenza cita Antonioni nel bianco e nero che sfuma sui personaggi.Si intuisce la storia di una coppia in crisi, la presenza di un amante, e nel tempo rallentato un mal di vivere diffuso tra feste notturne, solitarie chiacchiere, sorrisi di circostanza. Il meta-cinema, nel gioco tra la storia del personaggio e il film d’archivio, si compone come una matrioska a incastro perfetto, per raccontare il cinema nel cinema, la trasformazione della vita, la morte. Jonathan Romney al suo secondo corto, con un passato di critico – ha lavorato per The Independent, Sight and Sound, e il Bfi- mescola la sua passione cinefila a un’idea di cinema preciso, che fa di L’Attesa un esordio importante.
Da segnalare i lavori di Jodie Mack, Dusty Stacks Of Mom, omaggio alla protagonista del film. In animazione stroboscopica, i film di Mack richiamano i poster delle stanze delle teen-agers. Il film rispolvera il filmaking analogico, spazzato dal digitale. Da Undertone Overture a New Fancy Foils al già citato Dusty Scacks Of Mom. E poi l’ intenso Glister Thrills e Let Your Light Shine, visto con gli occhiali di carta che Jodie si porta dietro per la sua audience.

Belli i collage d’immagine dell’acqua, e la performance dal vivo con la colonna sonora cantata dalla regista live. La madre nel film arrotola posters, che lanciati nell’immagine, tracciano coordinate nel caos dell’immaginario collettivo. Dal manifesto di Martin Luther King a quello di Brad Pitt e Angelina Jolie, come per fissare dei punti visivi nel marasma delle immagini; l’intuizione artistica della visione costruisce un percorso singolare, inseguendo percorsi di colori, di ordine di oggetti, distanze e numeri.
Come un illusionista la filmaker, associa colori numeri. É un viaggio nella propria vita di artista, personale, profondo, atavico. Immerso in un’identità dinamica e sospesa.