Il titolo, Critica del gusto. L’immaginazione al potere dichiara da subito il punto di vista del nuovo libro di Edoardo Bruno (Bulzoni editore, a cura di Michele Moccia), una raccolta di testi sul cinema che esprimono lo sguardo dell’autore, e definiscono un pensiero (e un approccio) critico.

 

Docente di Storia del cinema, regista di quel mai abbastanza visto La sua giornata di gloria (1969) un film nel (e non sul) Sessantotto di cui cattura in tempo reale utopia e disillusioni, una lunga bibliografia che mescola l’esplorazione del cinema alla filosofia e all’estetica (da Film altro reale, 1978, Film come esperienza, 1986 a L’occhio probabilmente, 2016) Edoardo Bruno è soprattutto il fondatore della rivista «Filmcritica».

 

E quel «soprattutto» non è casuale, perché «Filmcritica», nata nel 1950, è stata nel tempo il laboratorio di un allenamento alla critica intesa come scrittura ma anche, o forse più, come invenzione di un pensiero libero in cui si sono incontrate e confrontate generazioni di critici, di pensatori, di ricercatori, di avventurieri dell’immaginario che avevano in comune il desiderio di andare oltre le classificazioni e le etichette con cui venivano incasellati un autore, una «tendenza», un gesto di cinema – nel comitato dei fondatori c’erano Umberto Barbaro, Galvano della Volpe, Giuseppe Turroni, vi hanno scritto tra gli altri da Emilio Garroni a Pietro Montani, Mario Verdone, Alessandro Cappabianca, Lorebzo Esposito, Enrico Ghezzi, Jean-Luc Nancy.

 

Rosselliniano di «fede» laicissima, come chi ama Ruiz e Clint Eastwood, Straub e Lynch, Pedro Costa e Blake Edwards, Edoardo Bruno cerca dentro e lungo i bordi dei fotogrammi quella «immaginazione al potere»che, come si legge nel libro in questione «si inserisce prepotentemente nella lezione del divenire, appunto, della Storia. Storia fatta da uomini e di atti concreti alla ricerca di un’utopia politica che è, poi, l’immaginazione al potere». E poco più avanti – il riferimento è Zéro de conduite di Vigo – : «… (Vigo) vede il mondo mentre lo mostra: vedere per Vigo significa ’darsi a vedere’, penetrare nelle ragioni politiche, dare un senso preciso alle ragioni che muovono il mondo».

 

Quando nasce «Filmcritica» l’Italia è da poco uscita dalla guerra, Bruno ha letto Andrè Bazin, la sua scommessa è quella di raccontare il mondo attraverso il cinema, o più diffusamente l’immaginario, ma concentrandosi sui gesti,sui dettagli, su quanto interroga il «sentimento» comune invece di assecondarlo. Non è il «contenuto» che cerca nel suo approccio ma il desiderio, il tratto ambiguo piuttosto che la certezza, la stessa posizione che ritorna in ciascuno dei testi raccolti in questo volume.

 

In una conversazione con Adriano Aprà (in www.adrianoapra.it), un’altro dei riferimenti fondanti il nostro pensiero critico, Bernardo Bertolucci parlando di Prima della rivoluzione (1964), e in particolare della frase di Talleyrand (allora molto attaccata) da cui prende spunto il film – «Chi non ha vissuto negli anni prima della Rivoluzione non può capire cosa sia la dolcezza del vivere» dice: «… Non c’è solo una maniera schematica di fare il processo alla borghesia, quella che pretenderebbe G.A. (Guido Aristarco) e i suoi scolaretti volonterosi ma tanto complessati. Per fortuna, ’Cinema Nuovo’ mi ha dato come voto ’zéro de conduite’».

 

Ecco a questo schematismo il cui riflesso arriva oggi in quella generalizzata e frenetica affermazione del «topic», di un soggetto importante che da sé basta a garantire un film, si oppone la costruzione

critica di Edoardo Bruno.

 

La realtà, la storia, la politica che è sempre poetica si colgono in una messinscena continua, dichiarata, spudorata che però è la sola arma con cui produrre un «vero» che sia tale. Proprio a proposito di Bertolucci e del suo Novecento leggiamo: «Bertolucci ha voluto guardare la Storia dentro a un imbuto di cose familiari, di gesti raccontati, di ricordi inventati, con l’occhio di chi ha visto il cinema, si è nutrito di immagini, ha imparato a guardare la realtà ’attraverso lo schermo’».

 

È dunque nell’immaginario e nel suo costante divenire, che la realtà esiste, è attraverso la sua reinterpretazione che si fa politica, nelle parole, nella scrittura, nei movimenti di macchina, nella luce, negli invisibili slittamenti all’interno di ogni inquadratura, nel tempo filmico, nel rapporto di distanza e di vicinanza degli autori. In quella macchina cinema che «dissolve e ricostruisce il reale, dove la forma cessa di essere forma»…

 

E se oggi la critica cerca sé stessa, un po’ spaesata tra i narcisimi dei likers (o degli haters), i paradossi social, le rigidità convenzionali, questo libro è ancora di più uno strumento prezioso. Una guida, una lezione che è quella di una vita.