Il Teatro Miela sembra essere il luogo perfetto per proiettare Stalker oggi: con i suoi muri sbrecciati e le lamiere, le inferriate tutt’intorno. Anzi ci si convince ancor di più di una corrispondenza stretta tra lo schermo, quello che accade sullo schermo, e il mondo intorno, quasi attirato, tirato dentro il quadro, dentro le sequenze di spessore, di formicolare grigiastro, mentre lo stalker conduce professore e scrittore nella Zona, in quel tragitto in cui il rumore della corsa sulle rotaie diviene naturalmente musica elettronica. Si arriva a credere che il cinema richiami a sé le cose che stanno fuori, in platea, nei corridoi, e di lì, oltre l’ingresso, l’aria, tutto il panorama che circonda chi guarda, Trieste oppressa dalla luce autunnale, da una profondità grigia che placa l’acqua, le banchine, immobilizza le barche. Un che di cinematografico: la riconduzione del mondo immerso, proiettato entro il fascio di luce grigia, alla sua origine cinematografica; e la vista, la conoscenza delle forme da una prospettiva altra, fantastica.

È PENSANDO a questa credenza, a questa fede nel cinema inteso come rivelazione, illuminazione delle cose, delle cose di tutti i giorni infuse semplicemente d’aria, che proiettare oggi Stalker ha un senso in più; perché la disperazione dello stalker a proposito dell’aridità dei due compagni di viaggio, della loro incapacità di credere, di guardare oltre la contingenza, riguarda la fine una civiltà, quella attuale, che non sa credere, avere fede nel progresso che trasuda dai versi di Eppur questo non basta (di Arsenij Tarkovskij), che questo inquieto veggente recita in uno dei meandri della casa posta nel mezzo della Zona, mentre lo Scrittore lo deride.

CHE È LA STESSA disperazione del poeta in Nostalghia, reso orfano del mondo, allontanato dal mondo contingente, pratico, perché il suo linguaggio – quello che appunto trasfigura le cose, cioè le figura per come realmente, essenzialmente sono, colme di suggestioni, grondanti di luce, e così che richiamano altre versioni degli oggetti, dal passato, o dal futuro, o semplicemente da un tempo sincronico, galleggiante nell’etere, che è puramente cinematografico – il suo codice linguistico non è utile, non è più assimilabile dai meccanismi di computazione, di economizzazione delle cose, che presiedono all’ordine attuale, coattivo della civiltà.

LO STALKER è rispettoso della Zona, è devoto, al servizio di questa struttura prismatica, estremamente cangiante che è, in sintesi, il cinema, con i suoi effetti illusionistici, atmosferici, le sue piogge interne, i misteri, i sincretismi del proprio apparire, in cui si mischiano su uno sfondo di piastrelle o di ex-voto, specchi d’acqua, fogli macerati, fili di ferro arrugginiti: tutto un apparato in rovina (lo stesso che ispirava la riflessione di Benjamin sul teatro barocco, o anche la poesia più ermetica, più misteriosa di Ungaretti), un repertorio di macerie che, nel decadere, sgretolarsi dai muri, macerare dentro le pozzanghere, dichiara la propria antichità, il proprio risuonare presente, attualissimo, sedimentando in sé tutto il corso, il senso del tempo, il suo sentimento.

È QUELLO che Foucault chiama un contro-spazio, una zona di riparo, di rifugio, come i regni angusti che si ricavano i bambini in un angolo della casa, in una soffitta, nell’incavo di un muro, dove poter fantasticare, credere, cioè guardare ogni cosa nella propria essenza, cioè nel raddoppiarsi delle sagome, nel loro sfolgorare, transitare una nell’altra in dissolvenze incrociate. Scrive Foucault: «L’angolo remoto del giardino, la soffitta o, meglio, la tenda degli indiani montata al centro della soffitta, e infine – il giovedì pomeriggio – il grande letto dei genitori. È in quel letto che si scopre l’oceano, perché tra le sue coperte si può nuotare».