Il rinvenimento di un cavallo sfarzosamente bardato in un’area archeologica pertinente a Pompei è la singolare e commovente scoperta di fine anno. Nella città vesuviana i crolli sembrano arginati, malgrado il Tempio di Iside sia appena stato restituito al pubblico – assieme alle domus della Fontana grande e dell’Ancora – spogliato del suo verde: i maestosi cipressi piantati da Amedeo Maiuri negli anni ’50 del secolo scorso sono gli unici ad aver pagato per la trascuratezza nelle manutenzioni. Ombre si stagliano anche fra le rovine del caput mundi.

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Il giorno di Santo Stefano, al Colosseo – dove è in corso la mostra sugli imperatori della dinastia africana dei Severi – l’ennesimo turista dall’animo vandalico ha staccato un frammento di laterizio per farne un talismano. Al contrario, non voleva portarsi via un souvenir del passato ma affossare il ricordo delle deportazioni naziste chi, all’inizio di dicembre, ha divelto e sottratto alla coscienza civile venti pietre d’inciampo nel quartiere romano di Monti.
Guardando verso Oriente, la sopravvivenza del patrimonio resta in pericolo: lo scorso mese un’alluvione ha rischiato di sommergere la rosea Petra, incastonata nella roccia dei Nabatei.

La natura, però, c’entra solo in parte: è l’urbanizzazione incontrollata ad aver stravolto canali e dighe. Nel rispetto del paesaggio, tra le ziqqurat mesopotamiche dell’Iraq meridionale, lavora invece una missione archeologica dell’Università La Sapienza, che nel 2018 ha continuato a seguire le straordinarie tracce di un porto datato al III millennio a.C.: diretti da Licia Romano e Franco D’Agostino, gli scavi ad Abu Tbeirah conciliano le esigenze della ricerca con il desiderio di sostenere – tramite il coinvolgimento della comunità locale – la rinascita economica del paese.
A fine ottobre, nella Siria ancora dilaniata dalla guerra e nonostante gli indignati appelli degli studiosi avversi a Bashar al-Assad, le porte del Museo nazionale di Damasco si sono spalancate davanti a un’élite politica e accademica mentre migliaia di profughi non possono far ritorno nelle loro case. In precedenza era stato firmato un accordo con la Russia per ricostruire Palmira, la Sposa del deserto, prima danneggiata dalle bombe del regime e poi ridotta in macerie dallo Stato Islamico.

Ma davvero vuoti simulacri potranno cancellare l’onta delle distruzioni, curando le ferite identitarie di un popolo? La risposta non è nei progetti ammantati di propaganda ma nella recente riapertura – perlopiù ignorata dai media – del museo d’Idlib, il cui intento è far conoscere i siti archeologici del territorio a quei giovani che, a causa del conflitto, non li hanno mai potuti visitare. Perché se – come affermava Tucidide – la Storia è un «possesso per sempre», la memoria è la chiave per un rivoluzionario futuro di pace.