Diversi leader mediorientali hanno applaudito alla notizia che Hillary Clinton non sarebbe diventata presidente. Davanti ai loro occhi loro è balenata la possibilità di rilanciare le relazioni con gli Stati Uniti sfilacciate dalle divergenze sorte con Barack Obama sulla crisi siriana, l’accordo sul programma nucleare iraniano e il rapporto con gli islamisti, in particolare con i Fratelli musulmani. Per questo l’egiziano Abdel Fattah al Sisi è stato tra i primi a telefonare a Donald Trump per fargli le congratulazioni, auspicando una nuova era nella collaborazione tra i due Paesi. Trump ha ringraziato e si è augurato di rivedere il presidente egiziano che ha già incontrato a New York due mesi fa. È ancora presto ma i rapporti difficili Usa-Egitto, che hanno spinto al Sisi a gettarsi tra le braccia di Putin, potrebbero essere finiti.

Hillary Clinton, quando era segretario di stato, aveva stabilito buoni rapporti con il presidente Mohammed Morsi e i Fratelli Musulmani cacciati dal golpe militare del 2013 e ieri alcuni deputati egiziani, intervistati da al Ahram, prevedevano che Trump darà una spallata agli islamisti. Secondo il Cairo Obama ha sperperato miliardi di dollari per sostenere movimenti islamici credendo che fossero moderati e Clinton avrebbe fatto altrettanto. Trump perciò è visto come un “liberatore”. Al Sisi forse conta sul presidente americano eletto anche per mettere fine alla crisi con l’Arabia saudita. Riyadh, di fronte al cambio di rotta del Cairo nel sistema di alleanze regionali, ha sospeso le forniture di greggio previste dal piano di aiuti e investimenti da 23 miliardi di dollari promessi all’Egitto prima dell’estate. Una mossa alla quale al Sisi ha reagito lasciando intendere di poter stringere un accordo petrolifero con l’Iran. E due giorni fa una corte di appello egiziana ha confermato l’annullamento dell’accordo con l’Arabia Saudita di cessione delle isolette di Tiran e Sanafir.

Ad ostacolare un ipotetico tentativo di Trump di convincere sauditi ed egiziani a ricucire lo strappo, ci sono le dichiarazioni fatte in campagna elettorale del presidente eletto su una possibile riconciliazione tra gli Usa e la Siria di Bashar Assad in nome della lotta al terrorismo, uno sviluppo che farebbe precipitare al punto più basso i rapporti con il re saudita Salman che per anni ha chiesto senza successo a Obama la testa del presidente siriano. Trump ha buone possibilità anche di riavvicinare la Turchia. Sulle relazioni tra Ankara e Washington però pesa il macigno della mancata estradizione dagli Usa di Fethullah Gülen, il predicatore nemico di Erdogan che il regime turco accusa di aver organizzato il fallito colpo di stato della scorsa estate.

La vittoria di Trump ha riportato in primo piano l’accordo internazionale sul nucleare iraniano. In campagna elettorale il tycoon ha avvertito che avrebbe rinegoziato il trattato e tenendo presente che il Congresso è nelle mani dei Repubblicani ostili all’intesa, il presidente iraniano Hassan Rohani è stato rapido ieri mattina a chiarire che gli Stati Uniti non hanno più alcuna possibilità di utilizzare la “iranofobia”. «Non si tratta di un comune accordo con un Paese o con un governo ma di una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Ciò significa che l’accordo non può essere modificato sulla base della decisione di un determinato governo», ha detto Rohani. Israele però non si lascerà scappare questa ghiotta occasione per provare a rimescolare le carte. Il premier Netanyahu ieri ha definito il nuovo presidente Usa «un amico sincero» dello Stato ebraico. Il suo giornale di riferimento, Yisrael HaYom, ha celebrato la vittoria di Trump destinata a rafforzare la destra israeliana e il movimento dei coloni che ha già invitato Trump a visitare gli insediamenti ebraici in Cisgiordania. Il ministro Naftali Bennett, uno dei leader dei nazionalisti religiosi, ha commentato che il successo di Trump ha «messo fine all’era dello Stato palestinese». La nuova amministrazione Usa, ha replicato il portavoce dell’Anp Nabil Abu Rudeina, deve «rendersi conto che raggiungere la stabilità e la pace nella regione passa attraverso la soluzione della questione palestinese in accordo con la legittimità internazionale».
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