Ieri sera Giuseppe Conte si è presentato davanti ai giornalisti. Doveva ribadire i passi in avanti del processo di rigenerazione interna e rivendicare la scelta dei suoi vice e dei referenti di area che giovedì e venerdì prossimi gli iscritti al Movimento 5 Stelle dovranno ratificare con il voto online. È diventata un’altra cosa: il leader ha dovuto giocare in difesa e fare un passo indietro rispetto alla prospettiva, considerata praticabile fino al giorno prima, di candidarsi alle suppletiva della Camera al collegio Roma 1.

Conte declina l’invito alla fine di una giornata difficile, durante la quale gli è apparso sempre più evidente che la prospettiva di entrare in parlamento subito prima dell’elezione del presidente della repubblica non è affatto rosea. Anzi, già in mattinata si è convinto che quella corsa rischiava di bruciare una volta per tutte la sua figura di leader e di punto di riferimento della coalizione allargata al centrosinistra. Al punto che qualcuno de suoi sospetta che la candidatura sia una polpetta avvelenata del Pd.

Conte è considerato l’unico che può salvare la baracca grillina perché ancora gode del favore dei sondaggi. È accreditato di un 14-15% che gli consentirebbe di giocare un ruolo anche negli anni a venire, questa volta alla guida di gruppi parlamentari in gran parte scelti da lui. Ma la vicenda delle suppletive rivela che quando quel 14-15% dal limbo dei rilevamenti d’opinione atterra sul terreno impervio della lotta politica quotidiana, allora la partita rischia di diventare più difficile. «Saremo compatti nel voto per il presidente della repubblica», dice commentando le parole di riconciliazione di Silvio Berlusconi nei confronti del Movimento 5 Stelle. Quelle parole, tuttavia, confermano ancora una volta che la partita per il Quirinale, che influenzerà la fine della legislatura e segnerà gli equilibri politici dei prossimi anni, è appena all’inizio e che può mettere in discussione persino le rivalità più acerrime. Smottamenti di fronte ai quali la lenta opera di ricostruzione del M5S (la lunga marcia del leader è cominciata ormai dieci mesi fa) rischia di venire sovrastata.
Eppure, il nuovo leader giura che in questa fase c’è bisogno di lui fuori dal parlamento e che una volta eletto rischierebbe di passare per assenteista. Ma sono gli eletti a lui più vicini, come la senatrice Alessandra Maiorino, ad ammettere che la sua guida sarebbe servita, eccome: «La presenza di Conte aiuterebbe nella gestione delle azioni politiche parlamentari e servirebbe a rinsaldare il gruppo».

Ancora, Conte declina perché sa che il primo elemento problematico è costituito da Roma. Il suo ingresso in parlamento dovrebbe passare proprio per un referendum sulla sua persona, nella città in cui alle ultime elezioni amministrative i 5 Stelle hanno subito la sconfitta più clamorosa. L’ex presidente del consiglio ha cercato di arginare il flop capitolino esprimendo da subito grande vicinanza a Roberto Gualtieri e provando a ridimensionare il peso di Virginia Raggi nelle dinamiche nazionali grilline. Ma l’ex sindaca ha ancora un ruolo, siede nel comitato di garanzia del M5S con Luigi Di Maio e Roberto Fico su designazione di Beppe Grillo e con la benedizione del voto degli iscritti (è la garante che ha raccolto più preferenze) e non ha alcuna intenzione di limitarsi a fare la consigliera comunale d’opposizione in Campidoglio. Nei giorni precedenti l’accelerazione sulla candidatura, dal M5S si diceva che la linea era quella di scegliere «un esponente della società civile», che non fosse identificabile al Pd ma che non venisse neanche dal M5S in senso stretto. Un identikit che pareva pensato apposta per sbarrare la strada a Raggi e investire sulla coalizione. Adesso che l’ex premier non se l’è sentita di combattere una battaglia che avrebbe rischiato di far pregiudicare sia la sua leadership che lo schema di alleanze, il M5S a trazione contiana rischia di ritrovarsi più debole.