Un festival millennium. È la definizione che meglio sintetizza il Festival di Rotterdam (fino al 3 febbraio), il primo appuntamento importante dell’anno, almeno in Europa, contemporaneo al Sundance di Redford con cui condivide alcuni titoli e l’attenzione al cinema indipendente. Quello di Rotterdam è nato negli anni Settanta e a lungo è stato avvolto dalla leggenda del suo fondatore, Hubert Bals (morto nell’88), a cui si intitola il fondo di supporto per i giovani registi del sud del mondo, e di edizioni in cui si davano appuntamento il New American Cinema e le Nouvelle vague internazionali, piccole ma affollatissime, meta adorata di un immaginario d’autore strabico e festivamente irriverente.

MA, APPUNTO, questa è la leggenda. Poi le offerte e gli interessi si sono moltiplicati fino a renderlo uno dei principali festival in Olanda – insieme all’Idfa di Amsterdam però focalizzato sul documentario – espandendo la programmazione in molte e diversissime direzioni, dai test di mercato per i film di richiamo dell’anno appena passato alle proposte «fuori schermo» installazioni e altro, senza dimenticare il cinema sperimentale, con nuovi autori passione insieme a certi film del passato della giovane generazione di cinefili. Una «gentrificazione» comune ma il festival olandese rispetto a altri aveva una caratteristica specifica: un fondo di produzione, l’Hubert Bals, a cui si era aggiunto il Cinemart, mercato per i work in progress in cerca di partner produttivi o di interlocutori, che anticipava una modalità oggi diffusa ovunque. A partire da qui la manifestazione olandese ha continuato a precorrere i tempi, e nel nuovo millennio quella sua specificità è divenuta centrale.

Più che per i film Rotterdam è un festival per i programmatori (la stampa è relativa) , pieno di panel, incontri, workshop diretti a giovani produttori, e quant’altro in cui ai filmmaker si danno le indicazioni «giuste»per sviluppare i propri film: si spiega come interloquire con eventuali partner produttivi, cosa fare ai pitching dei Lab ecc. ecc. quasi un decalogo per sfornare film di «tendenza» nel format che piace allo stuolo dei programmatori di cui sopra, tutti un po’ uguali, un po’ compiaciuti, un po’ autoreferenziali.

Mentre la struttura del festival diviso in tantissime sezioni «a tema» in cui si fa pure in po’ fatica a orientarsi è speculare a questo, con selezioni che non guardano ai film ma alla loro funzionalità alla traccia prescelta e se poi in un programma sei su sei sono brutti pazienza – capita in «Ordinarily and Black» all’interno di un focus sull’Africa nel cinema brasiliano che su questo ha prodotto cose magnifiche e assai più rivoluzionarie.  

Che edizione è dunque questa 2019 con la direzione di Bero Beyer e sotto il segno di JL Godard? Il suo Le livre d’image è proposto in diverse variazioni: la sala, su uno schermo nel salotto pieno di tappeti creato in una stanza dell’hotel Atlanta (Accueil livre d’image) dove si entra a gruppi di una ventina e si guarda il film sullo schermo (grande) televisivo come a casa propria (più o meno). L’aspetto interessante nel rivederlo in quel formato è che ne viene sottolineata maggiormente la specificità di saggio e l’equilibrio del dettaglio. Si fa più attenzione alle parole, ai materiali utilizzati, alle scene di film e di filmati on line, ai rimandi o auto-rimandi, a quel fare con le «mani» una storia che dal secolo scorso arriva al presente attraverso l’immaginario…

Infine Maquette expo (reportage amateur) in cui la voce dello stesso Godard spiega il progetto per quella che doveva essere la sua mostra al Pompidou di Parigi poi mai realizzata, cioè trasformata in altro, una sorta di nuovo capitolo delle sue Histoire(s) du cinéma, ospitato nella sala della Pauluskerk, luogo di accoglienza per persone senza tetto che trovano lì riparo al freddo, un barbiere, dove lavarsi . Ed è abbastanza spiazzante sentire nelle cuffie Godard che parla in quel contesto. Realtà/messinscena.

SUL DETTAGLIO lavora anche Andrea Caccia nel suo nuovo film, Tutto l’oro che c’è, una lunga camminata nella Valle del Ticino che ne è protagonista come luogo, o meglio habitat, ecosistema di gesti, abitudini, sorprese incontri inattesi. In una giornata di sole i bambini giocano a nascondino, lungo il fiume che percorre la valle diverse figure si sfiorano: un ragazzino, un carabiniere, un cacciatore, un nudista con l’ossessione dell’abbronzatura, un anziano. Ciascuno va in una sua direzione, forse alla ricerca di qualcosa .

Silenzio, il rumore dell’acqua e del vento, il ronzio degli insetti, voci che rimbalzano nell’aria, i colpi di fucile dei cacciatori. Lo sguardo di Caccia restituisce con la stessa attenzione figure umane e libellule, quello che accade su un filo d’erba e la caccia al cinghiale, la terra, le pietre, una casa diroccata… Non è questione solo di «osservazione» ma di cogliere – e rendere visibile – il flusso del tempo, che si rispecchia nel movimento del fiume, la sua temperatura, la percezione del luogo, la sua fisicità. Non c’è nulla di idilliaco, non siamo in un’Arcadia perduta, semplicemente quei dettagli spostano la centralità nell’immagine dall’uomo a ciò che lo circonda, ogni elemento assume un sua specificità, un ruolo che diviene fondamentale per costruire la percezione collettiva.

E non ci sono nemmeno storie di antichi tempi felici, ciascuno su quel fiume è un frammento di racconto possibile: forse il ragazzino si è perduto, forse il carabiniere vuole scoprire traffici poco chiari, forse il nudista è lì solo per godersi il sole, e forse per quell’anziano signore setacciare i sassi come durante la febbre dell’oro è un rito quotidiano come per Caccia seguire attraverso i giorni gli accadimenti di quel luogo.

PIÙ JONAS MEKAS – la profondità nell’insignificante – che il Piavoli del Pianeta azzurro, Caccia sposta quella scommessa sempre complicata per il cinema che è filmare l’invisibile su un piano tattile e sensuale, rivoluzionando le gerarchie dell’immagine; i suoi «dettagli» sono tutti protagonisti, la macchina da presa non ha una sola altezza (quella umana) ma si sposta come i sensi nel paesaggio per reinventarne la forma e insieme l’orizzonte del cinema.

Di dettagli è anche composta l’architettura emozionale su cui lavora Kavich Neang in Last Night I Saw You Smiling, (Bright Future) che segue il trasloco forzato degli abitanti di quello che a Phnom Penh chiamano il Palazzo Bianco, un esempio di architettura d’autore degli anni Sessanta, poi abbandonato con l’arrivo dei Khmer rossi e infine occupato dagli sfollati tornati in città quando il regime di Pol Pot era caduto. Tra questi la famiglia del regista, che lì è nato e cresciuto, devi ringraziare queste mura che ti hanno messo al mondo e ti hanno dato tanta conoscenza per essere quello che sei oggi, gli ripete il padre davanti alla macchina da presa.

Il palazzo è stato venduto a una multinazionale giapponese, il governo cambogiano si è impegnato a dare dei soldi a ciascuna famiglia per trovare una nuova sistemazione ma questo non fa sminuire l’angoscia. Ciascuno confida timori, incertezza, l’angoscia di rivivere per chi è più anziano ciò che hanno vissuto con Pol Pot. Il sentimento della perdita, la fine di una storia. Ci sono persone molto diverse lì dentro, che dietro a quelle mura ormai slabbrate dal tempo e dall’incuria sembrano appartenere a un tempo lontano, che quasi stride con le immagini della città moderna che li circonda.

È LA FINE di una comunità che Neang racconta, risucchiata dalla globalizzazione delle economie e sparsa nel Paese, un gruppo senza ricchezza ma con molta memoria di un vissuto condiviso: piccoli libri mangiati dalle tarme, canzoni, una piantina, un fiore dipinto sul muro. Il ricordo degli alberi di palme, il trauma di una nazione messo da parte, i sogni del cinema, attori e attrici, poveri e ricchi. Un mondo che non sembra più poter essere reale.