Tre anni fa gli organizzatori del Festival del cinema africano, d’Asia e America latina, avevano fatto una pensata che era loro parsa intelligente: spostare di un paio di mesi la data della manifestazione per farla coincidere con Expo. Già perché nel 2015 il festival avrebbe compiuto i 25 anni, data importante, da festeggiare adeguatamente, magari trovando qualche nuovo partner proprio in virtù di Expo e della visibilità che la rassegna avrebbe potuto avere. Come spesso avviene il pensiero di chi organizza manifestazioni culturali non trova riscontro presso le aziende (eccezione Duomo, Viaggi e Turismo). Così il festival si è trovato addirittura a perdere qualche sponsor («eh, c’è l’Expo») e diversi euro. Non solo le convenzioni alberghiere sono saltate, così il prezzo delle stanze è schizzato sino a 450 euro a notte. Follie. Il risultato è che forse non ci saranno grandi festeggiamenti, ma ci sarà sicuramente un festival degno di questo nome e capace di attrarre tutti coloro che in questi anni hanno saputo conoscere e apprezzare il cinema proveniente da altre zone del mondo. E dal 4 al 10 maggio si rinnova un appuntamento diventato imprescindibile, per la città e per chi vi ha partecipato nelle scorse edizioni.

Serata inaugurale con Taxi Teheran di Jafar Panahi, bloccato in Iran, teoricamente impossibilitato a girare film, eppure vincitore dell’Orso d’oro a Berlino con questo titolo che viene presentato in anteprima italiana, mentre la chiusura, con Malika Ayane madrina, è stata affidata a Naomi Kawase regista di Still the Water.
Il concorso lungometraggi propone tre esordi. Le Challat de Tunis di Kaouther Ben Hania, una commedia tunisina urbana con risvolti drammatici. Il primo film realizzato a Mauritius, Lonbraz Kann di David Costantin, con occidentali e orientali che arraffano le risorse del paese a danno dei nativi neri. E The Narrow Frame of Midnight di Tala Hadid, raffinata regista con tratti che sembrano sconfinare nella videoarte.

Un paio di documentari fotografano situazioni che definire problematiche è sminuente. Il palestinese Rachid Masharawi firma Letters from Yarmouk, l’invivibile campo profughi palestinese in Siria, recente teatro di atrocità Isis, e il regista, a confronto con Niraz Saeed, giovane fotografo che da sempre vive nel campo, si interroga su cosa possa fare il cinema di fronte a una realtà tanto terribile. Su un altro piano si muove il franco-cambogiano Guillaume Suon con The Stormy Makers, modo in cui i contadini dei villaggi interni definiscono quelli che arrivano per portare via le giovani (l’Onu parla di oltre 200mila casi l’anno) che vengono vendute come schiave nei paesi ricchi del Sud Est asiatico divenendo cameriere, operaie o prostitute. Un grande ritorno è rappresentato da Raoul Peck con Meurtre à Pacot sul rapporto perverso tra l’occidente e Haiti devastata dal terremoto.

Accanto agli undici film del concorso, giuria presieduta da Abderrahmane Sissako (suo Timbuktu candidato all’Oscar e vincitore di 7 César, primo regista africano a ottenere un riconoscimento di questo tipo) i cortometraggi africani, il concorso Extr’a, sguardo occidentale su drammi e tragedie, compresa quella immane dell’immigrazione con il suo portato di stragi, poi la sezione tematica Films that Feed (in collaborazione con Accra-Ccs) in cui spicca Wayne Wang con il suo Menu China, e ancora mostre, collaborazioni con il neonato Museo delle Culture (con ri-scoperta di classici del cinema africano delle origini). Senza dimenticare Asmarina Project di Alan Maglio e Madhin Paolos che indaga sulla comunità etiope e eritrea, persone che da decenni vivono nella zona a ridosso di alcuni degli spazi più battuti dal festival. Il Coe, Alessandra Speciale e Annamaria Gallone hanno svolto il loro compito pur in mezzo alle difficoltà, ora la parola passa ai milanesi. ( Informazioni dettagliate su sale, orari e dislocazioni varie su http://www.festivalcinemaafricano.org/new/)