La “settimana dei tranvieri genovesi” è stata una lotta di massa. La memoria di chi l’ha vissuta è concorde: mai vi era stata una simile compattezza. La radicalità dello sciopero a oltranza ha unificato per 5 giorni quasi 3000 lavoratori, scavalcando differenze di generazione, cultura e appartenenze sindacali. Non ha isolato i lavoratori. Nonostante i pesanti disagi, la popolazione ha oscillato tra benevola neutralità e aperta simpatia.

Ma più si è generalizzato il livello dello scontro, più è apparso evidente lo scarto tra radicalità della lotta e sua direzione. L’Amt vede una presenza maggioritaria di Faisal/Cisal (oltre 1000 iscritti) e Cgil (circa 500 iscritti). Cisal e Cgil avevano gestito l’accordo del 7 maggio: taglio di 1400 euro l’anno e rinuncia a 5 giorni di ferie, in cambio della difesa dell’azienda pubblica. Un accordo già allora controverso (approvato solo dal 54% dei lavoratori). Quando Doria ha stracciato questo accordo, la reazione dei lavoratori ha innescato la lotta. Nella prima assemblea è stata evidente la loro compattezza. Compattezza non significa omogeneità: nei lavoratori c’erano diversi linguaggi e culture, difesa di categoria («Né rossi, né neri, solo tranvieri») e rivolta generale («La scintilla dell’Italia siamo noi»). La sensazione emergente era però quella di una vicenda ben più grande della categoria. Per questo si azionava la prima frenata. «Ora si tratta di trovare subito uno sbocco» (Cgil); «Non dobbiamo cambiare il mondo, ma un’azienda» (Cisal). Nella notte di venerdì sindacati, Comune e Regione siglano l’accordo. Certo, non prevede altre decurtazioni, come a maggio. Ma taglia le linee collinari, con un colpo a organici e servizio, con lo scopo di rendere l’azienda più appetibile. Altro che ritiro della privatizzazione. Ma l’accordo ha soprattutto l’obbiettivo di spezzare la dinamica di lotta.

Sarebbe stato necessario dare una risposta. La prima questione era la cassa di resistenza. Una lotta prolungata ha bisogno di coprirsi le spalle. Da tutta Italia erano giunte disponibilità, non solo del trasporto locale. Occorreva incoraggiare e dare una forma a questa spinta. La seconda questione era l’estensione della lotta. Nulla era più falso del cosiddetto «isolamento». In diverse città si guardava a Genova. Era necessario proporre un appello, estendere la lotta contro le privatizzazioni. La terza questione riguardava l’organizzazione. All’Amt non c’è neppure la Rsu. Il sindacato autonomo si è sempre opposto, la Cgil si è adattata. Doveva essere costruita una rappresentanza democratica, che gestisse il negoziato. Ma nessuno è stato capace di avanzare questa proposta.

L’esperienza di Genova insegna quanto sia essenziale la costruzione di una direzione alternativa del movimento operaio. Solo una dinamica di massa può seriamente preoccupare la borghesia. Ma solo una direzione alternativa può evitare che la mobilitazione più radicale e generosa venga dispersa e sconfitta. E non c’è costruzione di una direzione alternativa di lotta fuori da un progetto complessivo anticapitalista che raccolga e organizzi attorno a sé la migliore avanguardia della classe operaia e dei movimenti, e riconduca ogni lotta a una prospettiva di rivoluzione.