Nelle viscere di un solaio in cui ogni anticaglia sembra palpitare di una vibrazione sinistra, una scatola macilenta è cavata all’abbraccio della polvere da una mano di bambino. Il cartone cede e dalla ferita sulla sua superficie salta fuori una scimmia. È una bambola di pezza con la pelliccia arruffata, incrostata di polvere; un pupazzo sdrucito che regge due piatti metallici. Nella diastole sistole del brivido, Hal Shelburn sente il jang jang jang dell’ottone. Il fantoccio lo guarda accoccolato tra le braccia di suo figlio: lo riconosce – non ha dimenticato il vecchio amico – e un ghigno orribile gli si spalanca sul muso, infuocandogli gli occhi di vetro indurito. La maledizione, che a momenti ha i tratti della psicosi, inizia col sorriso.
Così The Monkey – da Scheletri, terza antologia di racconti edita nel 1985 – esce dalla penna sciolta e ormai affermata di Stephen King e va ad arricchire il parterre di terrori metropolitani che da Annabelle agli spauracchi del creepypasta richiamano i cultori dell’horror. Il meccanismo, sempre uguale, gioca sulle immagini deformate. Con il favore del soprannaturale, del resto, il confine tra ciò che è quasi umano e ciò che è mostruoso sfuma sino a scomparire. La marionetta recide i propri fili coi denti aguzzi, la bambola viene posseduta ed è animata dal diavolo; la scimmia peluche diventa un feticcio grottesco. Alla base di ogni cosa sta quell’impressione di straniamento – Freud l’avrebbe definita Das Unheimliche – che bersaglia gli uomini e le donne nelle circostanze in cui sperimentino l’alterità. L’umanità è una Gestalt, un costrutto che si acquisisce attraverso la corretta espressione del corpo e del gesto; davanti a un processo incompleto o inceppato, l’alambicco delle certezze del lettore-spettatore pian piano comincia a incrinarsi. Ecco giustificato il brulicare di pupazzi, manichini e scimmiette nel mondo dell’orrore: modellini di corpi, riproduzioni incomplete di esseri viventi. Simili, e tuttavia mai totalmente sovrapponibili all’uomo. Allineamenti mancati.
È proprio attorno al concetto di «imitazione inquietante» – il Geloion mímema è la deformazione ridicola e caricaturale –, che Marco Vespa compone il suo saggio sulla rappresentazione della scimmia nei testi greci e greco-romani (Brepols «Antiquité et sciences humaines», pp. 556, € 95,00): ne ricostruisce, con la complicità della fonte letteraria, il morfotipo – a partire dagli elementi della testa, delle mani, dei piedi, delle gambe, in un secondo momento anche della voce – e la colloca, in un discorso che prende in esame la relazione interspecifica con l’uomo, nello spazio del margine e dell’atopia: «al contempo alterità geografica, irraggiungibilità e bizzarria». Come accade alla pantera profumata di Marcel Detienne che abita i paradisi esotici della Panfilia (ai confini del mondo), ove ammalia le bestie con l’ipnotico odore del corpo, anche il pithekos, infatti, popola quelle terre di frontiera tra sauvagerie e cultura: l’India e la Libia. Appeso ai ponteggi tra l’umano e l’alieno, a differenza del grande felino è però un outsider invadente: nel momento in cui penetra il recinto urbano del mondo civilizzato, vi si manifesta tirandosi dietro il disordine, l’ozio e la violenza, richiamando per contiguità altre raffigurazioni divergenti. Riempie il centro con il suo portamento sghembo, simile a quello del bambino; lo invade con il suo corpo queer, insubordinato alle regole che presiedono ai rapporti di genere.
Amalgamando in maniera sapiente i metodi della filologia classica, dell’analisi semiotica, e quelli più propri dell’antropologia del mondo antico che cementa attraverso la modalità d’indagine ‘emica’ lo sguardo dell’osservatore all’‘ottica del nativo’ nel tentativo di scongiurare qualsiasi bias prospettico, Marco Vespa allarga il compasso della sua indagine fino a comprendere i grandi corpora mitologici: la saga delle fatiche di Ercole punteggiata dalle figure dei Cercopi, mitici briganti trasformati in scimmie dalla collera del padre divino; l’epica omerica e, nello specifico, la figura di Tersite, secolare cardine nella riflessione estetica sul brutto. A tal proposito, studia gli aspetti mimetici nel ‘fare scimmiesco’ del personaggio antieroico, collegandolo con le nozioni di espressione e comportamento che già nel mondo antico erano proprie dell’ethos del primate. Ma l’indagine, che mai manca di rispetto al testo letterario, salvandolo da ogni scorciatura comparatistica e rimettendolo al centro di una riflessione viva e consapevole fondata sullo scavo linguistico, approda non di rado ad acquisizioni rilevanti anche per l’interpretazione del singolo autore e della specifica opera. È il caso di Fedro, di cui si indaga il lessico ambiguo e plurivoco, e di Apuleio, cui si applica, a partire dalla caratterizzazione della simia nell’undicesimo libro delle Metamorfosi, il filtro della teoria di genere.
Da anni ormai si è intuita l’importanza che ha l’animale – sono le parole di Cristiana Franco – «come operatore nelle analisi culturali»; una volta oltrepassata la linea d’ombra che separa le ‘scienze dure’ dalle cosiddette ‘scienze molli’ si capisce facilmente quanto l’etologia e la biologia evoluzionistica possano giovarsi di ricerche come questa: solide nel loro assetto storico-filologico, eppure vicine alla vita. Setacciando e ricostruendo il passato con scrupolo, esse non contribuiscono solo a spingere verso la sua conclusione naturale una tensione d’antan ormai insopportabile tra hard e soft science, ma divengono sussidi indispensabili a chi intenda comprendere la morfologia stessa della figura umana, i cui contorni fisici, pelle nervi e vene hanno un nome solo grazie alle codificazioni della cultura.
Il merito più grande del libro, in ogni caso, resta il suo farsi enciclopedia della marginalità; ermeneutica simbolica del diverso, dell’ambiguo, del disallineato. Si sente uno strepito in lontananza: è il riso terrificante di tutti coloro che – scimmie in primis – rifiutano di essere inclusi nei paradigmi spesso omologanti e moralistici degli uomini; è il ghigno di chi infuria e ruggisce dal difuori.