Dopo cinquantacinque anni una donna ha finalmente vinto il premio Nobel per la fisica. Ma per qualcuno la scienza è tuttora un lavoro per soli uomini. Sembrano discorsi di epoche ormai superate e invece tengono impegnati (su fronti opposti) anche ricercatrici e ricercatori, in teoria la parte più evoluta dell’umanità. Daria Guidetti, ad esempio, è tra coloro che cerca di superare lo stereotipo per cui le donne non sono nate per la fisica. È una ricercatrice a tempo determinato dell’Istituto nazionale di astrofisica, dove si occupa di osservare e mappare stelle e galassie.
Al lavoro di ricerca affianca l’attività di divulgazione militante, mirata a promuovere l’accesso delle donne ai laboratori scientifici. Con questo obiettivo, sabato 13 ottobre interverrà a BergamoScienza, in un incontro intitolato Una scienza oltre gli stereotipi. Vietato pensare alla «solita» battaglia per le pari opportunità, perché la realtà è meno scontata e talvolta paradossale. Nei paesi in cui tra donne e uomini c’è più parità, le donne studiano meno le materie scientifiche: la percentuale di laureate in materie scientifiche negli Emirati Arabi Uniti è circa il doppio di quella norvegese.

Daria Guidetti, qual è la situazione italiana?
Secondo l’ultimo report del Ministero dell’Università e della Ricerca (2016), le ragazze sono maggioranza sui banchi dell’università e tra chi si laurea, e con voti migliori dei maschi. Ma se si osservano le sole facoltà scientifiche, la percentuale di donne scende al 30-35%. È un dato analogo a quello di altri paesi europei. Tutte le analisi puntano l’indice contro uno stereotipo di genere che già all’età di sei anni viene trasmesso alle bambine da famiglia, scuola e società. Poi, se proseguiamo oltre e guardiamo alle carriere, le donne spariscono dalla piramide.

C’è differenza tra una disciplina scientifica e l’altra?
Ci sono più ragazze nelle facoltà di biologia e medicina che a fisica o matematica. Anche qui, si sconta un fattore culturale. Secondo lo stereotipo dominante, le donne prediligono il lavoro di cura. Perciò si preparano studiando l’ambiente naturale e le malattie.

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Cosa si potrebbe fare, e si fa, per modificare questo dato?
La divulgazione scientifica ha un peso importante. Raccontare le scienziate, fornire modelli del presente e del passato che possano ispirare le ragazze è fondamentale. Le istituzioni hanno avviato progetti pilota interessanti anche in Italia. Il Ministero ha stabilito di favorire, nella selezione dei Progetti di ricerca di interesse nazionale, quelli in cui le ricercatrici sono almeno il 40%. L’università di Bologna è capofila in un progetto europeo denominato «Plotina», mirato all’elaborazione di piani per l’uguaglianza di genere costruiti su misura delle organizzazioni di ricerca coinvolte. Al Politecnico di Milano ci sono incentivi per le ricercatrici che vogliono tornare al lavoro dopo la maternità. Poi ci sono iniziative sul piano culturale. Associazioni come «Donne e scienza» fanno un gran lavoro. Infine, oltre alle scienziate in carne e ossa, contano anche quelle immaginarie. L’Istituto nazionale di astrofisica ha creato un personaggio, Martina Tremenda, protagonista di storie di avventura e di scienza, per avvicinare al tema il pubblico più giovane.

Quali sonoi pregiudizi impliciti ed espliciti che frenano la carriera femminile in campo scientifico?
Ad esempio, uno stesso lavoro viene valutato diversamente se è svolto da un uomo o da una donna. Nel 1999, in un esperimento all’Università di Milwaukee, Wisconsin, fu chiesto a un gruppo di esperti di valutare dei curriculum reali, a cui erano stati assegnati nomi fittizi. Ebbene, lo stesso curriculum veniva valutato più favorevolmente se il nome assegnato era maschile. Anche le donne, al momento di giudicare, subiscono le stesse distorsioni, a riprova di quanto siano radicati certi pregiudizi. L’esperimento è stato replicato in seguito in altre università (San Gallo, Alabama, Yale) con risultati analoghi. Per spiegare le disuguaglianze di genere si invocano gli impegni familiari che zavorrano la carriera delle ricercatrici. Ma i dati mostrano che le donne single subiscono le stesse distorsioni.
Recentemente, al Cern il fisico Alessandro Strumia ha riproposto la tesi della minore propensione femminile per la fisica. È una provocazione individuale o è un’opinione condivisa da una parte della comunità scientifica?
Temo sia un pensiero piuttosto diffuso. Però alla fine credo che quella presentazione sia stata utile, perché è stata un’occasione per parlarne. Il problema è che per confrontare i meriti di donne e uomini occorre scegliere i parametri giusti, proprio per i pregiudizi impliciti di cui parlavo. Ad esempio, bisogna tenere conto del fatto che la carriera di una donna subisce più interruzioni di quella di un uomo, se si vuole misurare la produttività scientifica in un dato periodo temporale.

A proposito di modelli: può fare il nome di una scienziata ingiustamente trascurata?
Torno indietro nel tempo, all’epoca dell’astronoma Annie Jump Cannon vissuta a cavallo tra diciannovesimo e ventesimo secolo. Non poteva compiere osservazioni, perché gli osservatori erano riservati agli uomini. Ma lei era nel cosiddetto «harem» di Edward C. Pickering, un famoso astronomo che affidava a Cannon e altre donne il compito di classificare le stelle, a partire dalle lastre fotografiche del cielo. Così Cannon ottenne risultati impressionanti, scoprì oltre trecento stelle variabili e inventò la classificazione stellare che usiamo tuttora. Ma dovette aspettare il 1938 per vedersi offrire una cattedra universitaria, alla tenera età di 75 anni.