Letteralmente, una “anarcheologia” è un discorso su ciò che non ha inizio, su ciò che non è comandato, diretto, guidato da un principio. E ciò che non ha inizio, ciò che non sottostà all’ordine di un principio, non può neppure avere una fine. In questo senso, se è vero che una storia, come ci viene insegnato sin dalla più tenera età, deve avere un inizio, uno svolgimento e una fine, l’anarcheologia è giusto il contrario di una storia. Naturalmente, un discorso senza inizio né fine, un discorso anarchico, non può essere semplicemente un discorso “senza capo né coda”, come si dice.

Per procedere in maniera schematica, direi che se le storie seguono la logica della successione, del concatenamento tra eventi che si susseguono, l’anarcheologia implica invece una logica della coesistenza. Si potrebbe azzardare che la logica delle storie è l’organizzazione tipica della parola in quanto tale, mentre l’anarcheologica è l’organizzazione tipica dell’immagine.

Il cinema, per esempio, funzionava tradizionalmente grazie alla successione dei fotogrammi, ma il suo risultato è la sovrapposizione delle immagini su quell’unica superficie che è lo schermo. Se le immagini proiettate avessero uno spessore, dovremmo immaginare lo schermo come una placca rocciosa a falde sovrapposte, stratificate. Di volta in volta vediamo la più recente, ma in qualche modo tutte quelle che l’hanno preceduta stanno lì, l’una sull’altra.

È così che intendo l’And-scape del nostro titolo di oggi: le immagini non si danno il cambio, come le parole di un discorso o gli episodi di una storia, ma coesistono, l’una dentro l’altra, l’una sopra l’altra.

Per questo, solo le immagini possono costituire un paesaggio. Landscape, letteralmente, è distesa di terra. Anche la Terra, soprattutto la Terra, come lo schermo che abbiamo immaginato, è fatta di innumerevoli strati: strati di roccia, ma anche strati di tempo. L’archeologia sta lì a dimostrare che l’antichità non abita lontana nel tempo, ma vive sprofondata nel terreno che calpestiamo ogni giorno. Un paesaggio, a ben vedere, è l’apparizione della Terra con i suoi strati di tempo, al limite la compresenza di tutto il tempo del mondo. Forse è stato necessario arrivare alla fine del mondo, è stato necessario, per così dire, farla finita con le storie, perché ci potessimo accorgere che il passato è ancora qua con noi, sotto i nostri piedi, di fronte ai nostri occhi.

Vorrei farvi un esempio curioso, dato che si tratta di un romanziere, cioè di qualcuno che, in teoria, dovrebbe costruire precisamente delle storie, e non fare dell’anarcheologia: Winfried Sebald.

Sapete che Sebald, nei suoi romanzi, fa un ampio uso delle immagini. Ma non è solo questo il punto. Il fatto è che, nelle sue lunghe ballate, nei suoi viaggi senza meta, Sebald ha un modo di guardare il paesaggio che illustra nel migliore dei modi quello che cercavo di dire: vede sempre gli strati di passato che sono conservati nelle falde del paesaggio, alla superficie e nelle profondità della Terra.

In molti hanno letto questo sguardo rivolto al passato, come il sintomo di un carattere malinconico. E in effetti, si può dire che i personaggi di Sebald vivano sempre tra le rovine. Ma per loro vivere tra le rovine non significa vivere in mezzo a ciò che è morto, bensì avere il sentimento costante di tutto ciò che in un certo luogo è accaduto, di tutte le persone che vi hanno vissuto, di tutti gli amori che vi sono sbocciati e delle guerre che lì sono state combattute. Vivere tra le rovine significa, insomma, vivere sapendo che siamo una punta di presente su immense falde di passato, che questo passato non è perduto per sempre, ma coesiste con il nostro presente, e che in fondo il nostro presente non è più rilevante di tutto ciò che, a noi, qui e ora, appare irrimediabilmente trascorso. Credo che questa percezione statica e stratigrafica del tempo sia il nostro modo di entrare in relazione con ciò che altre culture chiamano “spiriti” – il nostro modo di essere sciamani.

Per dimostrare che è proprio di questo che si tratta nei romanzi di Sebald, vorrei finire leggendo un passo dal suo libro più famoso, Austerlitz (Adelphi 2002).

La storia del romanzo è molto semplice: Jacques Austerlitz, professore di Storia dell’architettura, decide di indagare sul proprio passato, di cui non sa nulla, e scopre di essere giunto a Londra durante la guerra, in un convoglio di bambini i cui genitori erano stati deportati. Austerlitz racconta la sua storia a un narratore che ce la riporta. Il punto in cui si trova il passo con cui vorrei concludere è quello in cui Austerlitz ha ritrovato Vera (un’amica di Agata, sua madre) che gli mostra alcune fotografie dell’epoca e gli racconta come andarono i fatti. Dopo aver parlato con Vera, visita la cittadina da cui erano partiti i genitori, Terezín. Le strade sono deserte, le case semi-diroccate, le vetrine dei negozi apparentemente immutate rispetto a sessant’anni prima. Austerlitz decide di entrare nell’unico luogo che sembra ospitare anima viva, il museo di Terezín:

Stavo leggendo per l’ennesima volta su una didascalia che a metà dicembre 1942, dunque proprio nei giorni in cui Agata arrivò a Terezín, erano recluse nel ghetto, su una superficie edificata di un chilometro quadrato al massimo, circa sessantamila persone, e poco dopo, quando mi ritrovai di nuovo fuori sulla piazza deserta, sentii con inequivocabile certezza che quelle persone non erano state condotte via, ma vivevano ancora, stipate nelle case, nei sotterranei e nei solai, salivano e scendevano senza posa le scale, guardavano fuori dalle finestre, si muovevano in gran numero per le strade e i vicoli e, in silenziosa adunata, occupavano addirittura l’intero spazio fra cielo e terra che una pioggia sottile tratteggiava di grigio (pp. 215-216).