La semplicità è alleata della rappresentazione complessa della realtà: è la sua struttura portante essenziale e elastica che, aperta all’imprevisto e alla propria trasformazione, è capace di reggere il peso del traffico dei vissuti e dei pensieri da essa consentito. La semplificazione produce, invece, complicazione: irrigidisce la struttura portante della rappresentazione, la riduce a schemi preventivi di difesa dalla natura complessa, prevedibile/imprevedibile della realtà che producono imbottigliamenti, ingorghi e precipitazioni catastrofiche del pensiero.

L’agire semplificante è oggi il principale nemico della scienza: ne corrode in modo crescente il consenso e trae forza dalla confusione che la corrosione determina, perché, nel circuito perverso della vita in cui prospera, la sua invocazione aumenta di pari passo con l’anarchia da essa creata.

Tuttavia della scienza la semplificazione non è un nemico solo esterno. Una parte consistente della ricerca scientifica, quella che gode dei più grandi privilegi economici e politici, è colonizzata dalla produzione di teorie e pratiche riduzioniste. Costruisce una realtà artificiale del tutto rispondente alle sue premesse di costruzione, di modo che la rispondenza perfetta del comportamento di una macchina alla sua progettazione, in cui funzionamento e scopo coincidono, appaia agli stolti come verità, l’unico dato affidabile della conoscenza.

Secondo uno studio della Norhwestern University dell’Illinois, pubblicato il 18 Settembre su Plos Biology, solo di una piccola parte dei geni che costituiscono il genoma umano si conosce la funzione. A un quarto dei geni non è mai stato dedicato un articolo e il 90% delle ricerche è concentrato sul 10% di essi. Il motivo principale di una così forte selettività nel campo degli studi genetici, ostacolo di un sapere ampio e complesso, sta nei vantaggi immediati che essa consente. Incoraggia i ricercatori a stare in un terreno di studio offrente sicure possibilità di sviluppo, li protegge dall’avventurarsi in direzioni non battute, infertili a breve termine, che potrebbero finire in un binario morto. Dà loro la possibilità di un’agevole carriera in un ristretto, specializzato ambito di ricerca in voga che aumenta la possibilità di essere citati, riconosciuti e cooptati nei posti di comando.

La restrizione del campo della ricerca scientifica in funzione dell’immediatezza remunerativa dei risultati, privilegia necessariamente la ripetitività e la quantità (che imitano, sostituendola, la ricchezza di prospettive) a scapito della sorpresa e della qualità (la capacità trasformativa della conoscenza).

Il potere economico/politico di questa restrizione si avvantaggia e la foraggia in ogni modo. Più si impoverisce la rappresentazione della realtà più il potere incrementa la sua forza coercitiva e consolida (apparendo necessario) il proprio consenso. Per un’economia che trasforma ogni merce in droga, bastano pochi «principi attivi» (idee che confezionano recinti dell’esperienza logicamente costruiti) e una grande varietà di rivestimenti che impressionano la retina e accecano la struttura psicocorporea, per disporre di un mercato senza limiti in cui riflettersi senza fine (un mondo in cui l’offerta determina la domanda).

Gli scienziati riflettendosi nella struttura del potere (catturati dalla sua fascinazione), finiscono per identificare la scienza con i suoi strumenti e i suoi dispositivi, cercano la verità nella pura riproducibilità dei dati e trasformando gli esperimenti in prigione, perdono il contatto con la sperimentalità, la sperimentazione come potenzialità dell’esperienza conoscitiva.