Eccole finalmente, le urne più cruciali della vita politica britannica recente. Oggi i 650 collegi parlamentari del Paese eleggeranno ciascuno il proprio deputato alla Camera dei Comuni. Theresa May ha aggirato il Fixed-term Parliaments Act, la legge voluta da Cameron nel 2011 che fissava l’appuntamento per il 7 maggio 2020, per anticiparle a oggi.

DOPO UN MESE VORTICOSO di campagna, partiti ed elettori si trovano finalmente faccia a faccia. I Tories (con 330 seggi) hanno dodici seggi in più sul Labour (che ne ha 232): una maggioranza risicata. Seguono i nazionalisti scozzesi del Snp con 56 seggi, i Libdem di Tim Farron, tragicamente crollati nel 2015 con nove e gli unionisti nordirlandesi del Dup, con otto.

Tories e Labour sembrano essere più o meno lontani a seconda di sondaggi d’opinione dai risultati del tutto differenti, reazione collaterale alle catastrofiche topiche prese dalla categoria di recente con Brexit e Trump. In alcuni, il vantaggio esponenziale (più di venti punti) di cui godevano i conservatori solo poche settimane fa sembra essersi dimezzato, anche se improbabile che si riproduca nella solitudine della cabina elettorale (e in un Paese governato da quel partito per la maggior parte della sua illustre e duratura storia costituzionale).

DALLA MEDIA DEI SONDAGGI di oggi, il cosiddetto poll of polls, i Tories sono dati a al 42.9%, i laburisti a 37.2%, i Libdem all’8.1% e l’Ukip al 4%. Pur avendo apparentemente gettato dalla finestra almeno metà del succulento vantaggio di una ventina di punti che avevano su un Labour sconquassato da una feroce guerra civile interna, May è ancora in corsa per una vittoria, che potrebbe essere plebiscitaria o ridotta.

Qualora non ci fosse alcun vincitore netto, il metodo first past the post imporrebbe un parlamento «appeso» (hung) dove nessuno ha una maggioranza. Si profilerebbero così o un governo di minoranza, o una coalizione a cui Nicola Sturgeon si è detta favorevole pur di mettere Corbyn a 10 Downing Street: la cosiddetta, temutissima «coalizione del caos» degli spin doctor Tory cui Theresa è unico antidoto (finora Corbyn ha escluso simile eventualità, ma non è detto).

QUESTE ELEZIONI POLITICHE, volute ufficialmente da Theresa May per «rinforzarne la mano» nei complessi e prolungati negoziati con Bruxelles sulla Brexit, in realtà puntano a mondare definitivamente la Gran Bretagna dal partito laburista, stremato da lacerazioni interne fra base e vertici di cui la figura di Jeremy Corbyn è a un tempo causa ed effetto. Ma arrivano al termine di una campagna elettorale abbastanza disastrosa per May, e per vari motivi. La premier si è dimostrata tanto inetta a relazionarsi con il pubblico quanto Corbyn naturale e schietto; ha snocciolato slogan con imbarazzante ripetitività, insistito sulla propria immagine e fatto troppi voltafaccia su politiche sociali da vero e proprio nasty party (partito malvagio, vecchio soprannome denigratorio dei conservatori) e propugnate da un programma elettorale redatto di fretta che tradisce la sicumera di chi è abituato a ritenersi inattaccabile quanto alla gestione dell’economia.

NON HA PESATO solo il fatto che i due leader – come dire – antropomorfizzino le proprie ideologie (individualista, rigida, disciplinare lei; sociale, gentile, comprensivo lui) e che, davanti a microfoni e telecamere, il carattere dei due avrebbe giocato a favore del deputato di Islington, che zappetta l’orticello di casa nel fine settimana ed è capace di parlare con chiunque.

I due bestiali attentati terroristici in due settimane di Manchester e Londra (cui si aggiunge quello a Westminster lo scorso marzo) hanno fatto il resto: May ha cercato come poteva di schivare le critiche inevitabili di fronte a una serie di errori fatali dei servizi di sicurezza che non hanno saputo scongiurare il tragico bilancio di una trentina di vittime.

ERRORI corroborati dai tagli all’organico della polizia imposti da lei stessa quand’era ministro dell’interno. Per neutralizzare la rimonta di Corbyn ha ancora una volta brandito l’immagine di tutrice di law & order, dichiarando a poche ore dall’apertura dei seggi, di essere disposta a stracciare le leggi sui diritti umani pur di imporre nuove restrizioni sui sospettati di terrorismo. È anche così che si annulla un Ukip calante e in crisi identitaria. Il fatto poi che tali leggi siano emanate dalla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo rafforza la sua autorappresentazione di condottiera capace di guidare la patria fuori dal giogo europeo.

Bisogna dunque guardare in faccia la dura realtà di una probabile vittoria Tory, tenendo presente che alle elezioni del 2015, che avrebbero regalato una maggioranza inaspettata a David Cameron, i due partiti erano dati testa a testa come mai dal 1945.