Nel cattolicesimo la successione apostolica è il centro dell’ordinamento della Chiesa. Si capisce quindi come l’azione e l’insegnamento di un papa rappresentino qualcosa di più di un semplice modello da imitare.

Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II sono per Bergoglio due «fonti» di elaborazione dottrinale con le quali è imprescindibile fare i conti. La scelta di accoppiare le canonizzazioni, oltre a esprimere la volontà di conciliare la memoria storica della Chiesa, ha un forte valore simbolico e ci dice alcune cose di questo papa, del suo stile pastorale e della sua idea di rinnovamento.

L’accostamento di papa Francesco alla figura di Roncalli è stato più volte proposto dai media e da alcuni protagonisti della stagione ecclesiale degli anni ‘60. Un elemento in comune ai due è la capacità di aver dato una scossa alla Chiesa in un momento di intorpidimento (alla fine degli anni ‘50) e di aperta crisi nel caso più recente delle dimissioni di Ratzinger, ottenendo attenzione e consenso anche tra le fila dei non credenti. Bergoglio ha dichiarato in più occasioni la sua riconoscenza nei confronti del papa della povertà e dell’apertura ai «segni dei tempi». Nel giugno 2013, parlando ai pellegrini della diocesi di Bergamo, ha elogiato la consapevolezza di Giovanni XXIII della necessità un aggiornamento costante della Chiesa. Come ha spiegato nell’intervista alla Civiltà Cattolica, dal Vaticano II non si torna indietro: alla Chiesa spetta il compito di metterlo in pratica. Si può affermare dunque che con Bergoglio è finita la stagione del ridimensionamento del Concilio e delle polemiche circa la sua corretta ermeneutica.

La «conciliarità» del papa è riscontrabile poi nel suo primo documento programmatico, l’esortazione Evangelii Gaudium, da cui emerge un’impostazione pastorale molto distante dagli assi portanti del discorso ratzingeriano. La battaglia contro il relativismo e la «deriva antropologica» non viene accantonata, ma assume i caratteri di una sfida alla religione perché si faccia interprete dei dannati della Terra. Il piano bio-politico, quello dei «principi non negoziabili», non è oggetto di riforma, ma lascia il posto al bisogno di ritrovare l’essenzialità del Vangelo. La stessa Chiesa, infine, è chiamata da Bergoglio a riformarsi, recuperando una maggiore collegialità e credibilità (vanno lette in queste chiave l’avvio della riforma della Curia e l’intervento sullo Ior) e valorizzando il ruolo del popolo di Dio.

Un anno dopo l’elezione, il cantiere di papa Francesco è aperto. Per comprenderne meglio la direzione, è utile mettere in campo un ulteriore concetto caro all’ex vescovo di Buenos Aires, quello di «pietà popolare», a suo tempo centrale nella pastorale di Giovanni Paolo II. La categoria della missionarietà/pietà popolare viene presentata da papa Francesco facendo riferimento al documento Aparecida, il testo della V Conferenza dell’episcopato latinoamericano nel 2007. Richiamandosi a Wojtyla, Bergoglio pone nella forza della fede popolare, quella che si esprime nelle devozioni ai santi, nel rosario, nelle processioni mariane, nell’attaccamento alla Chiesa, un fondamento dell’inculturazione della fede nella società del presente. Si trova qui un punto di contatto forte con il modello carismatico, polacco, che ha segnato gli anni ‘80 e ‘90 e che ha trovato nell’America latina del post-commissariamento della teologia della liberazione un terreno particolarmente fertile.

L’accoppiamento delle due canonizzazioni sembra quindi confermare l’eredità che viene da due papi «ingombranti» della storia recente: il bisogno di riprendere il filo interrotto del Vaticano II e di rendere la fede più attuale e comprensibile agli occhi di una società razionalista, assumendo però anche i caratteri della stagione precedente di resistenza devozionale al processo di secolarizzazione.