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La scelta di Manu Chao

La scelta di Manu ChaoManu Chao

Pagine/Pubblichiamo alcuni estratti dalla prima biografia autorizzata dell’artista francese, «Clandestino. Alla ricerca di Manu Chao»

Pubblicato quasi 3 anni faEdizione del 6 novembre 2021

A diciotto anni Manu viveva con i suoi genitori nella periferia di Parigi e il successo musicale era ancora un sogno, lontano circa una decina d’anni. Era solo un giovane rocker con il ciuffo alla Elvis, che con i Joint de Culasse cercava di portare avanti la fiamma del rock’n’roll. Le prove e le esibizioni erano una sorta di rituale che omaggiava gli Dei dello shake e del rattle’n’roll. Manu e i suoi compagni erano così devoti a Chuck Berry e gli altri miti del rock, da non sentire la necessità di scrivere proprie canzoni. C’erano così tanti classici da poter suonare… Il cugino Santi, batterista della band, aveva dato un tocco ancora più prosaico al loro repertorio: «Ci sarebbe davvero piaciuto saper suonare come Santana, ma non eravamo abbastanza bravi». A detta di Manu, i Joint de Culasse si cimentarono anche in un paio di pezzi degli Stooges, ma ottenendo scarsi risultati. Sèvres era territorio dei rocker. I punk che girovagavano per il quartiere potevano incontrare gli sguardi da psicopatici tipici dei rockabilly, oppure essere accolti senza troppe remore dal pugno di ferro di qualche ragazzo de la caillera. Direttamente da Londra, i conflitti inter-tribali dovuti alla musica erano appena sbarcati a Parigi, insieme ad altri aspetti più costruttivi della punk revolution. I punk, les keupons in slang parigino, non giravano in cerca di rogne soltanto con les rockeurs ma, in maniera decisamente più pesante, con les skins. Manu Chao passò gran parte degli anni Settanta e gli inizi degli Ottanta nei confini relativamente sicuri di Sèvres, frequentando la sua compagnia di rocker. Ma non è sempre stato la mascotte innocente della gang. Ricorda perfettamente quando prese parte al pestaggio di una punk band chiamata Cain and Abel, colpevole di aver suonato dalle parti di Issy-les-Moulineaux. Anni dopo, quando Manu iniziò a esibirsi nelle metro con Daniel Jamet, chitarrista dei Cain and Abel e collaboratore occasionale della Mano Negra, dovette dare alcune spiegazioni. Jamet ha ammesso di aver seriamente temuto per la sua vita quella sera. Manu non sarebbe mai stato felice se avesse continuato a suonare cover di Blue Suede Shoes o Brown-Eyed Handsome Man per il resto della sua vita. Aveva quel tipo di curiosità che ti fa sentire la necessità di esplorare gli spiriti della musica in tutte le sue forme.

La copertina della biografia «Clandestino. Alla ricerca di Manu Chao»

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Il riff di apertura di Mano Negra, brano iniziale di Patchanka, primo album della band, ha un’andatura apocalittica e spavalda, da Far West. Un minuto e cinquantaquattro secondi di clamore e determinazione, sovralimentato dagli squilli di trombe di Antoine Chao e mixato, sfacciatamente, sopra a ciò che somiglia a una folla di 50.000 persone che acclama selvaggiamente i suoi eroi. Considerando che, al momento della registrazione, la Mano Negra aveva suonato solo in qualche piccolo evento della nettamente più vasta area di Parigi, questo dimostra in primis un terzo occhio da veggenti e poi una bella faccia tosta. Nel giro di qualche anno, infatti, la band radunerà effettivamente una folla di quelle dimensioni, e ruggirà per davvero. Quale fu il magico motivo che fece decollare il gruppo portandolo da un garage nei sobborghi fatiscenti di Parigi fino al cuore di migliaia di persone in tutto il mondo, ispirando un’intera nuova generazione di gruppi musicali in Sud America, praticamente dall’altra parte del globo? Gli occultisti, da Paracelso in poi, dicono che la magia, o la realizzazione dell’apparentemente impossibile, possa avvenire grazie alla giusta combinazione di volere e immaginazione. E Manu di sicuro aveva una ricca immaginazione e una volontà precisa. Il connubio di questi due ingredienti essenziali generò l’alchimia che portò la Mano Negra in ogni angolo del mondo. Come disse il manager Bernard Batzen, «Manu era acuto e aveva un intuito molto sviluppato. Ha lavorato sodo. Tutta la band si è data davvero da fare». La magia derivò in parte dall’idea geniale di Manu di mescolare i diversi elementi del rock, del punk, della musica latina e del reggae in una nuova e piacevole fusione. E ci fu qualcosa di magico anche nelle personalità fortemente interconnesse della band da lui creata. «Una band grandiosa non è fatta da ottimi musicisti», afferma. «I Clash non erano poi così bravi come musicisti. Ma come band erano strepitosi. Era per la personalità, l’attitudine, l’energia». E un ultimo, ma pur sempre cruciale elemento fu il tempismo.
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Manu tornò in Europa nei primi mesi del 1995. Ricorda di essersi sentito come «una vecchia nave mercantile che avanza lentamente, rispetto alla veloce barca quale ero in Sud America». Fece base a Madrid per qualche mese, dove trovò un ambiente energico e stimolante nella zona di Malasaña, un quartiere gloriosamente bohème diventato il centro della movida per i movimenti di controcultura nati negli anni immediatamente successivi alla morte di Francisco Franco nel 1975. Nell’euforia post franchista degli anni Ottanta, l’abolizione dei tabù era diventata una regola. Erano apparsi dal nulla locali notturni, club per scambisti, bordelli e boutique particolari, il tutto accompagnato dall’uso indiscriminato delle droghe. Vari gruppi pop-punk come i Radio Futura o i Nacha Pop si erano guadagnati un pubblico internazionale; alcuni stilisti, come Ágata Ruiz de la Prada avevano innescato la moda sexy ed eccentrica mentre cineasti come Iván Zulueta e Pedro Almodóvar avevano scelto di raccontare il senso di disordine e libertà percepito in quegli anni. La movida era già storia nel 1995, ma i bar e la mentalità erano rimasti gli stessi. A Malasaña potevi andare in locali come El Pentagrama o La Via Lactéa e passare la serata immerso in profonde conversazioni con attori, fotografi e musicisti fino alle prime ore del mattino. Manu e Gambeat, l’amico bassista di Parigi, si trasferirono insieme nel quartiere e diventarono amici di un chitarrista di nome Madjid Fahem. Madjid sapeva suonare il rock come il flamenco, e Manu lo venerava al pari del suo idolo Paco de Lucía. Manu, Gambeat e Madjid formarono un trio ed unendosi a qualche musicista locale fecero una serie di concerti sperimentali, suonando i pezzi migliori dei Los Carayos e della Mano Negra, e provando anche qualche nuova canzone di Manu. Si iniziava a vedere una luce in fondo a quel tunnel buio ed infinito. «È stato bellissimo», racconta Manu. «Finalmente era l’inizio di qualcosa». Manu aveva trovato una nuova gang. Madjid e Gambeat sarebbero diventati i suoi collaboratori principali per Radio Bemba, il nome del gruppo che da lì a breve utilizzerà per tutti i gruppi che lo avrebbero accompagnato nelle sue esibizioni. La parola «bemba» proviene dallo slang cubano e significa «pettegolezzo» o «passaparola» 78, un termine adottato dai ribelli di Castro nelle montagne della Sierra Maestra durante i primi giorni della rivoluzione cubana. Manu iniziò anche a progettare un nuovo evento un festival che si sarebbe chiamato La Feira de Las Mentiras79 , completo di circo, chioschi per il cibo, musica e dibattiti politici. Nella sua idea, doveva essere un seguito degno di nota di spettacoli meravigliosi come la Caravane des Quartiers, anche se meno folle del Cargo Tour o del viaggio in treno in Colombia. A differenza di altri progetti su cui aveva rimuginato, questo si concretizzerà in Galizia nel 1998. A Madrid incontrò poi un’attrice incantevole e spiritosa di nome Paz Gómez. Si tratta della ragazza che qualche anno dopo sarebbe apparsa nel video di Me Gustas Tú, presente nel suo secondo disco solista. Le cose sembravano rimettersi a posto, anche se Manu non aveva ancora deciso se riprendere o meno la carriera musicale. Forse, pensava, era meglio lasciar perdere tutto e andare a vivere in Africa o in Asia come operatore sociale, oppure seguire la strada di famiglia e provare a diventare un giornalista. Aveva la percezione assillante che qualunque cosa avesse fatto, il tormento che provava dentro non se ne sarebbe mai andato. Iniziò a credere veramente che il problema potesse essere un maleficio lanciato su di lui da qualche sacerdote di Candomblé in Brasile, e che non potesse più liberarsene.

* È l’autore di «Clandestino. Alla ricerca di Manu Chao» (Il Castello Editore), biografia di Manu Chau da cui pubblichiamo un estratto  

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