Edith Eva Eger aveva 17 anni quando è stata catturata dai nazisti insieme alla sua famiglia e agli altri ebrei della sua città nella primavera del ’44. Ora un libro – La scelta di Edith (Il Corbaccio, pp. 351, euro 18,60) – ne racconta la storia dall’infanzia ad oggi. La vita l’ha condotta da Kosice in Cecoslovacchia, ad Auschwitz, a Mauthausen, poi la «marcia della morte» da Mauthausen a Gunchenskir e, dopo la liberazione, di nuovo in Cecoslovacchia, in Ungheria, in Austria, per approdare in varie città degli Stati Uniti e fermarsi, a oltre 90 anni, a La Jolla, in California. È negli Usa che farà la fame, lavorerà in fabbrica e, a 42 anni, conseguirà la laurea in psicologia. Da allora, da quel giorno di maggio del 1969, farà la psicologa, scrivendo e lavorando sul trauma, e sullo stress post traumatico. Il libro narra un percorso reciproco, quello tra pazienti e dottoressa nel corso di lunghi anni: nella misura in cui lei aiuterà i suoi pazienti a guarire, loro segneranno le tappe di una guarigione possibile.

La scelta di Edith è un bel libro – a scriverlo, con Eger, è Esmé Schwall Weigand – la parte dedicata alla deportazione e alla tragica esperienza dei campi di sterminio sono pagine drammatiche, ma non è nel campo della memorialistica che il volume desta maggior interesse. Da tempo, gli studi sulla Shoah indicano la necessità «nelle storie di vita» di prendere in considerazione non solo il periodo della guerra e della deportazione ma anche il periodo precedente e successivo, eppure La scelta di Edith non è nemmeno un libro di storia, è il racconto di come sia possibile vivere «dopo»: vi si narra infatti di una sorta di psicologia della libertà. «La memoria – scrive Eger – è un sacro suolo. Ma anche infestato di fantasmi. È il posto dove la mia collera, il senso di colpa e il dolore girano in tondo come uccelli affamati rovistando tra le solite vecchie ossa. È il luogo dove vado in cerca della risposta alla domanda alla quale non si può rispondere: ’Perché sono sopravvissuta?’». Domande e tentativi di risposta che non tracciano un percorso lineare, ma nessuna guarigione lo è: «Entrambe – scrive Eger riferendosi a due pazienti – erano potenzialmente in grado di guarire. Avevano la possibilità di scegliere azioni e atteggiamenti che le avrebbero trasformate da vittime in sopravvissute anche se le circostanze con le quali avevano a che fare non fossero cambiate. I sopravvissuti non hanno tempo di domandare ’Perché proprio a me?’. L’unica domanda rilevante è ’E adesso?’».

La chiave è nel solco della logoterapia, filone della psicoterapia fondato da Viktor E. Frank, viennese, anche lui prigioniero nei campi di sterminio nazisti. Un approccio positivo che ha radici nella vita di Edith. È ancora ad Auschwitz quando, dopo aver sfiorato la morte, riflette: «Non so cosa succederà dopo. Nel frattempo posso sentirmi viva dentro. Oggi sono sopravvissuta. Domani sarò libera». La ricerca della libertà dal dolore e dal trauma è il filo conduttore del volume. Resta qualche perplessità – in particolare per ciò che riguarda il difficile tema del perdono – ma l’inquietudine che suscita la lettura può essere un buon viatico.