Sette anni di viaggi e ritorni in Albania per attraversare paesaggi montani, impervi, chiusi in comunità dedite alla terra, abbarbicate nel nord del paese. È lì che Paola Favoino, fotografa calabro-lucana, ha incontrato le ultime «vergini giurate», le donne che si sono fatte uomo per sopperire alla mancanza di un capofamiglia o per sfuggire a un matrimonio non gradito (nel 2015 ci fu anche il film di Laura Bispuri).
Con una di loro, Gjin, si è stabilita una relazione affettiva: era la più anziana e nel 2017 è morta, a 93 anni. Lei, la fotografa, l’ha potuta vedere ancora una volta, ormai allettata. Voleva raccogliere molto di più della sua storia, aprire gli scrigni del riserbo, ma ha comunque tenuto con sé i piccoli dettagli di una quotidianità fatta di gesti che si ripetono e che creano un intero mondo. A Gjin è dedicato il libro – che poi è un vero e proprio progetto, nato nel 2011 e ampliato nel 2019 – presentato al Festival Castelnuovo Fotografia (visitabile fino a domani) in una mini-mostra itinerante. Uscito con la casa editrice Edizioni d’ottobre/Balter, per la cura di Aminta Pierri, è un manufatto artistico in 250 copie, con preziosi interventi manuali. Come il rettangolo blu che copre le foto d’archivio avute in prestito per il racconto delle cinque storie che compongono A Je Burrnesh: quasi un velo che fa da spartiacque fra il tempo del ricordo e quello del presente, in cui le immagini si «vivono» dal vero.
Il confine valicato e rimasto anche un po’ sospeso è quello del corpo. È infatti da qui che è ripartita Paola Favoino per il suo ultimo progetto. «Mi sono chiesta il ruolo del contesto quanto può influenzare ciò che siamo, come ci comportiamo e come scegliamo di rivelarci. Mi sono interrogata sull’uso del corpo. Il mio attuale progetto parla del corpo, della libertà e non libertà rispetto agli altri. Ho fatto un lavoro con un transgender che ha tolto il seno per sentirsi a proprio agio. Dopo A Je Burrnesh e la collaborazione con Aminta Pierri, la prima cosa che ho pensato è stata di restituire tutto in un libro. Lo ho autoprodotto, ho inserito pezzi del corpo, mai la persona. E l’ho legato anche qui al viaggio, narrando il corpo come se attraversasse il mare e arrivasse su un’isola: un percorso un po’ immaginifico per approdare all’autorappresentazione di sé».

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Nel libro sulle vergini giurate, delle migliaia di fotografie scattate ne sono state selezionate solo cinquantatré. Pochi ritratti, molto paesaggio. Ma come è nato l’interesse per le burrnesh?
«Mi sono occupata di Albania nel 2003 con una tesi sull’immigrazione – dice la fotografa – . Sono laureata in sociologia e in quel tempo, quando c’era molto attivismo politico, stavo facendo una ricerca sul campo insieme all’associazione Illiria. Un giorno, un amico mi raccontò una storia: parlava di suo zio che era nato donna. È così che ho scoperto questa tradizione. In realtà per gli albanesi che vengono da quella zona, intrisa di cultura montana e contadina, è molto comune avere un parente burrnesh, generalmente è una figura rispettata proprio per la difficile scelta che ha compiuto. Le burrnesh, infatti, sono donne che in giovanissima età hanno deciso di diventare socialmente ’uomini’, assumendosi l’onere di portare avanti la famiglia, sostituendosi al lavoro del padre o del fratello (dal boscaiolo al postino al contadino fino allo spaccio alimentare) quando questi venivano a mancare all’interno della loro comunità. Ne ho incontrate tante nel nord dell’Albania, ma nel libro racconto solo cinque storie, quelle a cui mi sono avvicinata maggiormente e che erano esemplari dei diversi modi di essere vergini giurate».

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Si rimane nubili e ci si declina al maschile, accedendo a un terzo genere sociale e sessuale per molti motivi. «Per esempio, Gjin la più anziana che ho conosciuto è diventata burrnesh a 23 anni per scongiurare una vendetta di sangue nei confronti della sua famiglia. Non si poteva rompere la promessa di un matrimonio combinato e lei, per evitare una faida, si è trasformata in maschio, seguendo i dettami del Kanun, il codice di leggi consuetudinarie. Le vergini giurate sono state studiate da antropologhe e viaggiatrici inglesi già all’inizio del Novecento. Sono state rintracciate anche nel Kosovo e in Montenegro, nell’area nord dei Balcani: è lì che il Kanun si è mantenuto vivo, grazie a comunità piccole, che rimanevano chiuse e seguivano tradizioni antichissime. L’Albania, per motivi storici di dominazione, prima quella turca durata 450 anni, poi con la forte chiusura imposta dal comunismo russo per altri 50 anni, in qualche modo è riuscita a conservare una microsocietà fondata su norme proprie che non erano quelle dettate dai potenti e conquistatori del momento. Il Kanun toccava tutti i punti della vita comune di un albanese, dalla dote della sposa ai doveri del capofamiglia alla risoluzione dei conflitti fra vicini. Oggi finalmente lo troviamo scritto. Prima si tramandava solo oralmente, ma negli anni Trenta un frate lo ha raccolto direttamente dalla voce delle persone per poi trascriverlo. All’interno si parla di queste donne nubili che si vestono come uomini e che possono partecipare ai consigli come i maschi ma senza diritto di voto: il loro valore nella società è quindi riconosciuto fino a un certo punto».

Accompagnando le burrnesh lungo i sentieri della vita per sette lunghi anni, Paola Favoino si è fatta molte domande . Ma non c’è una risposta univoca. «Sono un terzo genere che ha a che fare con il ruolo culturale e sociale, rinunciando ai doveri di chi biologicamente nasce femmina e ha un destino tendenzialmente scritto. La loro rinuncia è, in fondo, conquista di qualcos’altro. Se sia una sconfitta o meno è quello che nel mio libro cerco di raccontare. È un dubbio difficile da risolvere perché s’insinua nell’intimità di ognuno di noi. Per capire, ho passato del tempo a contatto stretto con loro. Ma pure se, a volte, ho potuto percepire la zona d’ombra dei rimpianti, questi non sono stati mai esplicitati»