Una fila interminabile di carovane, centinaia di uomini a cavallo con i fucili a tracolla, bambini che gridano, cacciatori che puntano il cielo aspettando la tortora di passaggio, tuniche bianche e grigie con il cavallo dei pantaloni penzolante, montagne innevate lasciate alle spalle e vette brulle negli occhi. Non è l’America, è il Pars, la regione a sud dell’Iran dove un tempo i Qashqai (popolazione di origine turca) vivevano come nomadi girando il centro del paese per la transumanza del bestiame. Yelak e Qeshlak, prati estivi e invernali dove cercare l’erba e il clima migliore per i greggi e per gli uomini. I Khan erano i capi delle tribù, i qashqai erano un grande clan, una famiglia che raggruppava diverse tribù fino ad annoverarne migliaia. Oggi sono in pochi a portare avanti la tradizione della transumanza, è arrivata la modernizzazione del paese, le strade, le ferrovie, l’industrializzazione, le lotte contro gli scià e gli ayatollah.

GERARCHIE MILITARI

Come afferma il professor Masour Rafiee Tayebi, storico dell’università di Tehran, circa mille anni fa i qashqai sono entrati in Iran dal nord-ovest per spostarsi al sud dove si sono insediati trovando l’habitat ideale per le transumanze e per i verdi pascoli. Ma solo nel Cinquecento, durante il periodo safavida, si sono integrati nel sistema politico iraniano, organizzati in una confederazione, organizzata con una gerarchia molto simile a quella militare. «Oggi quelle regole che governavano la comunità dei nomadi sono presenti solo all’interno dei nuclei familiari. Probabilmente il nomadismo qashqai finirà, ma se il governo centrale li aiuterà, magari usando le nuove tecnologie, forse i qashqai potrebbero trovare un’altra forma di nomadismo», spiega Tayebi. Si sono sempre distinti per la difesa dell’unità nazionale: contro i portoghesi a cavallo del XVII secolo, contro gli inglesi, contro gli invasori nella Prima Guerra Mondiale, nella rivoluzione Mashtuteh agli inizi del Novecento e quella di Musaddeq nel 1952.
Ali Jamal Pirbandin è del clan Qashquli, 40 anni, si lamenta perché lo stato rimane immobile di fronte a una realtà che vede scomparire un rituale, un costume che rappresenta per lui tutto il mondo in cui è cresciuto. Ali vive a circa 40 km a sud-ovest dell’accampamento del clan di Nasihuallah, da 15 anni ha abbandonato il nomadismo, ma si rifiuta di trasferirsi in città. Nella transumanza andava a Yasuj, alle pendici delle montagne di Dena, ed è nato là nella città di Sepidan. È celibe, vive con la sorella, il cognato, il nipote e altri familiari, coltivano la terra e continuano la pastorizia senza spostarsi. «Ci hanno chiuso le strade e si sono portati via tutte i sentieri della pastorizia, non ci hanno lasciato nulla», afferma contrariato Ali. «I ragazzi vanno a scuola, poi superiori e università, a un certo punto non ne vogliono sapere più nulla delle vecchie tradizioni dei qashqai se non quella di montare a cavallo e di sparare con il fucile. Preferiscono gli stili i vita della città e cercare lavoro là con le nuove tecnologie. Hanno una laurea e un lavoro fisso, non c’è bisogno di essere pastori, di allevare greggi ed essere nomadi», prosegue lasciando trasparire un certo disappunto.

DIVISI A META’
Il gregge è ormai nel recinto alle spalle di Ali, sua sorella fugge dall’obiettivo della macchina fotografica come la maggior parte delle donne qashqai: per timidezza, per rispetto degli uomini e perché nessuna vuole avere problemi con il governo per le cose che si possono dire. «I nomadi sono divisi a metà: chi va in città e chi rimane ancora legato alle sue radici perché non vuole perdere le terre di cui è proprietario e che lo stato può espropriare abbandonate». Ali spiega come le banche diano prestiti con alti tassi d’interesse da pagare in brevi periodi e che non sono facili da ripagare. «Il governo dovrebbe aiutarci ma non lo fa, la mia sarà l’ultima generazione di nomadi, poi scompariremo, saremo assimilati», afferma Ali.
Un belare incessante che riecheggia nella valle sovrasta la voce di Nasihuallah Shirahmadih del clan Gojobaigi mentre parla della sua gente: i qashqai iraniani. Nasihuallah è nato a Semirom, a metà strada tra Shiraz ed Esfahan, ha studiato fino alle superiori nella vicina città di Firuzabad (in provincia di Shiraz). Quando suo padre è venuto a mancare non c’era nessun altro che potesse governare il bestiame, la mancanza di lavoro in città ha fatto il resto, così è tornato per riprendere le antiche tradizioni seguendo le orme degli avi. Da ottobre fino a marzo-aprile vive in un accampamento sui monti ad una manciata di chilometri dalla diga di Haighar dove c’è l’omonimo canyon a 150 km a sud di Shiraz. È sposato ma ancora non ha figli, la moglie, come tutte le donne del clan, lo aiuta nella pastorizia. Inizia presto, alle 5 del mattino. I bambini della tribù quando si svegliano dopo la colazione rimangono in una tenda dell’accampamento attrezzata all’occorrenza dove un maestro dal vicino villaggio impartisce gli studi elementari. Una volta le scuole si spostavano con le tribù e le centinaia di persone che le formavano, ora invece durante la transumanza i bambini vengono lasciati ai parenti che si trovano nelle vicine cittadine per circa 6 mesi, dove molti altri qashqai ormai risiedono permanentemente avendo abbandonato il nomadismo.
La transumanza per andare a nord nella regione di Esfahan, dove le temperature sono più miti rispetto alle estati torride della zona del Pars, dura circa 52 giorni per arrivare a destinazione e rimanere per altri due mesi e mezzo prima di ritornare. Insieme a Nasihuallah ci sono altre otto famiglie, tutti parenti, che portano i greggi a piedi per circa 400 km. Alle 8 di sera sono già tutti a letto, anche perché d’inverno la notte arriva presto e nell’accampamento non c’è elettricità, il piccolo pannello solare usato per ricaricare i cellulari si è rotto e solo quando si va in città per comprare grano e altri beni di prima necessità si approfitta per ricaricarli. Si mangia quello che si produce: pane, formaggi, latte e qualche volta carne quando viene macellato un capo.

COMUNITÀ URBANE
Nasihuallah ha 27 anni e lo sguardo vispo, è uno dei pochi giovani rimasti a continuare la tradizione. Possiede circa 300 pecore, i pascoli si riducono sempre di più perché le zone dove c’erano acqua e prati sono stati trasformate in nuovi insediamenti, divenuti con il tempo vere e proprie comunità urbane. Nasihuallah è sincero: «Il nomadismo è una vita che non mi dispiace, ma mi mancano le comodità come l’acqua corrente e l’elettricità. I vecchi non vogliono abbandonare la tradizione mentre le nuove generazioni preferiscono la città, se puoi vivere nella comodità perché dovresti scegliere di vivere questa dura vita?». Non si lamenta dei soldi, con il bestiame riesce a vivere bene anche se deve rinunciare a una vita più agiata. «Quando i vecchi non ci saranno più allora tutti ci trasferiremo in città», c’è un filo di rammarico nella sua voce, ma sa che il tempo lavora contro: «Negli ultimi 10 anni le piogge sono state scarse, non c’è abbastanza erba per tutti capi, siamo costretti ad integrare comprando foraggio e covoni di paglia». In estate, quando si spostano al nord Nasihuallah e i suoi familiari usano tende marroni di lana fitta che bloccano il sole e la pioggia ma permettono al vento di passare le fitte maglie.
Foruuz Filiwand è il nipote di Ali, ha 27 anni, ed è laureato in legge. «Vivo con i miei perché non c’è lavoro in città, ma se ci fosse non ci penserei due volte ad andare. Mi piace allevare il bestiame, se si guadagnassero più soldi non mi dispiacerebbe rimanere qua. Farei anche la transumanza, ma solo se ci fossero alcune comodità, altrimenti preferisco rimanere nella fattoria», afferma convinto Foruuz. Spiega come aiuta la famiglia con i nuovi macchinari per l’agricoltura e per la crescita delle piante, ma il suo sogno sarebbe quello di trovare un buon lavoro in città, come molti della sua generazione.

NOSTALGIA DEL PASSATO

Ali Khashtan ha 43 anni, una volta aiutava il padre Abul Fatah con il bestiame, possedevano molti capi tra mucche, pecore e capre. Circa 20 anni fa il prezzo della carne schizzò alle stelle e il padre decise che era venuto il momento di vendere tutto per ricavarne una buona fortuna. Da allora Ali e la sua famiglia vivono a Ghir, il padre ha lavorato come manovale per le ditte di costruzione e lui si è messo in proprio, ha un carrattrezzi per rimorchiare le auto che s’impantanano in strada. Mentre parla ha lo sguardo malinconico verso tempi che non ci sono più e un’infanzia che incomincia a fare parte di un racconto e non della propria vita. Dal tono della sua voce si capisce che ha nostalgia di quei momenti, di quando essere qashqai aveva un significato sociale mentre ora si guarda intorno e vede il suo garage dove porta le macchine. Sua sorella Rokhsa, 45 anni, si sveglia la mattina e prepara la colazione per i suoi sette figli, ogni due giorni cuoce il pane, poi riordina la casa e prepara il pranzo, nei ritagli della giornata cuce piccoli tappeti o borse come sua madre e la nonna le avevano insegnato da piccola. Le cose che fa però non contribuiscono all’economia familiare, non sono per la vendita perché i costi sono troppo elevati.
Key Qobad Bohadory Khan, 67 anni, ha abbandonato il nomadismo nel 1961, è uno dei pochi capi della vecchia generazione ancora vivi, da allora risiede ad Azizabad, pochi km prima di arrivare a Firuzabad, dove ha lavorato come agricoltore e allevatore: «Eravamo a migliaia allora, c’erano cinque grandi clan divisi in duecento tribù, ci spostavamo in base al clima. Poi sono arrivate l’industrializzazione, l’urbanizzazione e le strade che hanno tagliato le vie della transumanza; i bambini hanno incominciato ad andare a scuola e sono sopraggiunte le comodità che l’hanno fatta da padrone. Firuzabad e i paesi intorno sono popolati da gente che prima era nomade, il nomadismo era la nostra tradizione, la nostra casa, il nostro essere, eravamo felici ma nel 21° secolo è impossibile continuare come si faceva un tempo, solo pochi portano avanti quella modalità di vita», afferma khan Bohadory.
Khan Bohadory non conosce Nasihuallah, né Ali, né Foruuz ma in un certo modo dà loro ragione: «Tornare indietro al tempo passato è impossibile, la gente guarda al futuro e a come si evolve la società. Non è più come prima, quando i qashqai dovunque si trovassero avevano tutto il necessario: cibo, acqua, greggi, pascoli, cacciagione… e si muovevano in base alle stagioni prestabilite. Una volta solo le pecore e le capre erano importanti per i qashqai, oggi è differente, hanno bisogno di medicine, di dottori, di ospedali, di scuole, di lavorare e tutto deve essere a portata di mano». Khan Bohadory ha lo sguardo fisso su una parete della stanza dove la sua mente proietta il film della sua memoria, un tempo in cui era al fianco del grande Khosrow Khan nelle battaglie contro lo scià Pahlavi e la difesa del suo popolo. Le sconfitte si sono susseguite, i qashqai sono stati indotti ad accettare la modernità, Khosrow Khan ad andare in esilio per ritornare dopo la rivoluzione di Khomeini ed essere giustiziato nel 1982 per aver provocato sommosse.

PATRIOTI ROMANTICI

Eppure Khan Bohadory racconta cosa è l’eredità dei qashqai per l’Iran: «I qashqai sono dei patrioti romantici, attaccati ancora al proprio stile di vita e ai propri costumi, all’artigianato nella tessitura dei tappeti famosi in tutto il mondo. Abbiamo combattuto l’imperialismo e abbiamo difeso il paese contro qualsiasi attacco esterno quando l’Iran ne ha avuto bisogno, siamo stati sempre presenti». I suoi occhi fissano ancora la parete, quel giovane ragazzo alto e snello con il fucile in mano scorre ancora davanti a lui, riavvolgendo per un attimo la storia e facendo ritornare i qashqai proprio lì, sulle alture delle montagne, alla ricerca di un pascolo verde, cacciando la selvaggina, montando i cavalli quando il cielo sopra le proprie teste era terso e limpido senza i fumi delle fabbriche, le città e le strade asfaltate erano solo un miraggio, una storia narrata in un paese lontano.