L’Italia è un paese che manifesta segni di debolezza in tutti gli indicatori economici. Il Paese, anno dopo anno, si allontana sempre di più dall’Unione Europea, cumulando un ritardo che interroga la struttura produttiva. Le cause sono molte, ma quella della specializzazione produttiva è un nodo trattato male e, spesso, superficialmente.

La pubblicistica denuncia l’insufficiente domanda a sostegno del sistema produttivo, con una riduzione secca di lavoro, come principale effetto della crisi, ma qualcosa di più profondo si nasconde nella scatola nera della mancata crescita. «Molti attribuiscono la bassa crescita del Pil alla carenza di domanda. Non è così. L’Istat dice che nel secondo trimestre i consumi si sono risvegliati con una crescita dello 0,4 per cento. Il guaio è che la maggiore domanda è soddisfatta più dalla produzione estera (le importazioni) che da quella interna» (F. Daveri). Gli investimenti delle imprese italiane non sono la principale causa del declino italiano; indiscutibilmente hanno registrato un calo vistoso, come in tutti i paesi europei, ma le imprese non investono se le prospettive di profitto sono negative.

In realtà, l’impossibilità delle imprese nazionali di soddisfare la domanda interna, ha piegato un indicatore positivo come l’investimento nel suo contrario. Se una componente attiva e per alcuni versi anticiclica del Pil come gli investimenti non trova una corrispondente produzione, le risorse finanziarie delle imprese, destinate al consolidamento e rafforzamento della produzione, diventano domanda di beni capitali esteri. In altri termini, le imprese italiane hanno investito in Italia per consolidare la produzione di beni di consumo, ma creato lavoro buono nei beni capitali in altri Paesi, perdendo l’occasione per modificare la propria specializzazione produttiva. Almeno la metà della divergenza economica italiana rispetto all’Europa è attribuibile a questo inedito fenomeno.

La distanza che ci separa dai paesi europei nel periodo 1996-2014 raggiunge i 15 punti rispetto alla Germania, così come nel periodo della crisi (2008-2014), ancorché la crescita in questo caso diventa negativa di 9 punti percentuali. L’impatto sulla produzione industriale italiana rispetto all’Europa è disarmante. Non solo la produzione industriale tra il 2003 e il 2008 cresce poco più dello zero, con una differenza (negativa) dalla Germania di 18 punti, ma la specializzazione produttiva del paese durante il periodo della crisi (2009-2014) determina un calo della produzione di quasi 21 punti, con una differenza da quella tedesca di 24 punti.
Colpa degli investimenti insufficienti o più bassi dalla media dei Paesi europei? Non solo gli investimenti sono in linea con quelli europei, ma sono anche molto più alti di quelli realizzati dalla Germania, che nel frattempo ha rafforzato la produzione industriale rispetto all’Italia.

Complessivamente gli investimenti europei crescono del 17,2%, quelli dell’Italia del 16,2%. Quindi, la minore crescita del Pil italiano non è attribuibile ai mancati investimenti. Potrebbe essere diversa la lettura se consideriamo il periodo della crisi (2008-2014). In effetti gli investimenti dell’Italia registrano un calo vistoso rispetto a tutti i competitor europei. Gli investimenti diminuiscono del 34,2%, mentre la Germania registra una crescita del 5% e l’Europa una contrazione del 17%.

In questo caso è possibile «denunciare» i mancati investimenti delle imprese come responsabili del calo del Pil, ma qualcosa non torna nel ragionamento. Se consideriamo l’andamento della produzione dello stesso periodo, la contrazione degli investimenti è coerente. Non sono diminuiti gli investimenti in senso stretto, piuttosto il sistema produttivo ha perso per strada una parte significativa del suo sistema industriale. Infatti, il rapporto investimenti-Pil, pur riducendosi, rimane saldamente al di sopra del 18%, non molto distante dal rapporto tedesco.

Possiamo tentare di dare una risposta al declino industriale dell’Italia? Per farlo dobbiamo introdurre un tema complesso. Si tratta dell’intensità tecnologica degli investimenti, cioè il rapporto tra spesa BERD (ricerca e sviluppo delle imprese) e investimenti, sempre in rapporto al Pil.

In tutti i paesi è cresciuta l’intensità tecnologica degli investimenti. L’Italia passa da 2,51% del 2005 a 3,90% del 2013; troppo poco per agganciare l’Europa. L’area euro passa da 5,01% a 6,71%, la Germania da 8,81% a 9,66%, la Francia da 5,85% a 6,52%.

Il ritardo del sistema economico è proprio nell’intensità tecnologica degli investimenti. Se non produci beni capitali con certe caratteristiche sei costretto a importarli.

In molti denunceranno le ridotte risorse destinate a ricerca e sviluppo delle imprese. Un argomento debole. Infatti, la ricerca e sviluppo delle imprese è coerente con la produzione. Durante la conferenza programmatica della Cgil sarà consegnato «Riforma del capitalismo e democrazia economica. Per un nuovo modello di sviluppo», a cura di L. Pennacchi e R. Sanna, Ediesse. Una buona occasione per avviare una discussione che non è mai partita seriamente.