Nasce come coproduzione tra l’ente lirico bolognese, il Comunale, e lo stabile Emilia Romagna Teatro appena promosso a «nazionale». Di questa doppia paternità l’opera porta il segno fin dal titolo: Traviata, ovvero La signora delle camelie (all’Arena del sole resta in scena fino a domenica 31 maggio).
Il regista Nanni Garella infatti mescola il romanzo di Alexandre Dumas figlio con l’opera di Giuseppe Verdi, così che senza forzatura o distorsione alcuna, ne nasca un’opera unitaria e articolata. Un’opera mista, di parole e di canto, che attorno a quella vibrante e sfortunata creatura femminile, archetipo di molti e contrastanti tipi di immaginario, raccolga le forze della Parigi pulsante e mondana, dei drammi piccoloborghesi del suo amante, della burbera crudeltà del padre di lui, dell’illusione (davvero la grande illusion) di conquistare e mantenere la felicità contro tutte le convenzioni e i moralismi di una società ipocrita. Ma nello stesso tempo del riempirsi la vita di piaceri e sollecitazioni oltre ogni limite, economico e sociale.

La più amata forse delle protagoniste d’opera, ci appare come creatura di romanzo teatrale, con un narratore che impersona lo stesso Dumas, mentre in un crescendo di fatuità e crudeltà, esplode quasi naturalmente il canto da quegli attori che sono anche notevoli cantanti. Perché Garella li ha fatti provare per mesi, mentre seguivano anche il perfezionamento vocale alla scuola del Comunale. Ed è una bellissima sorpresa per il pubblico sentirli passare dalla recitazione al canto, con lo stesso impegno e la stessa convinzione.

Mentre li accompagna un ensemble orchestrale del Comunale (comunque di diciotto elementi) che Massimiliano Carrato dirige con passione premurosa e anche divertita. Sei sono i giovani cantanti dell’organico, assieme all’esperienza di due attori consumati come Umberto Bortolani (che è il medico narratore della vicenda) e Marina Pitta che segue con la dedizione ancillare di Annina tutta la tragedia della sua signora. Manca solo il coro di Verdi, cosa che anzi rende la vicenda più intima e felpata. La partitura è stata «ritagliata» con assoluto rispetto e a fini esclusivamente drammaturgici, da Claudio Scannavini. Il risultato non è un musical, e neppure un’operetta: gli autori suggeriscono un singspiel, alla maniera del primo Mozart.

Quel che è certo è che il pubblico segue con grande piacere quel racconto di palcoscenico che spesso si innalza nel canto, e nella polifonia delle voci sembra scoprire le mille contraddizioni di Violetta Valery. La creatura di Verdi è più sfacciata e scandalosa di quella di Dumas, eppure avvicinandola qui scopre una umanità molto coerente nelle sue ambiguità morali.

La scena, all’apparenza semplicissima ma assai funzionale di Antonio Fiorentino (un tavolo mondano e un letto divano) gioca e moltiplica le molte pieghe di quella «immoralità» (così come rovescia in possibilità positiva il borghesume bigotto di papà Germont). Tutto grazie anche alle luci, a momenti cinematografiche, di Gigi Saccomandi. Per una sorta di prototipo dopo il quale Nanni Garella, da sempre interessato alla drammaturgia diversa e altra da quella convenzionale, potrebbe riservaci altre belle sorprese.