A Pedro Sánchez anche i nemici riconoscono una qualità, la perseveranza. Senza di quella, si sarebbe arreso molti anni fa. Economista, 46 anni, il nuovo presidente del governo socialista non è mai stato un leader carismatico. Ambizioso, forse.

Probabilmente il più sorpreso di essere riuscito a scalzare Rajoy dalla Moncloa – è la prima volta in Spagna che questo succede con una mozione di sfiducia – è proprio lui. Di certo nessuno ci avrebbe scommesso due anni fa, dopo che aveva portato il Psoe al suo peggior risultato (solo 85 seggi, sei mesi prima erano stati 90), dopo la guerra che gli aveva scatenato contro il partito (che addirittura lo aveva esautorato togliendogli la segreteria), dopo i due tentativi falliti di formare un governo al posto di Rajoy.

Sánchez oggi ha raggiunto i vertici dell’esecutivo, la vendetta contro i suoi compagni di partito che lo avevano affossato si è consumata: si è fatto eleggere presidente, e con l’appoggio di Podemos e dei nazionalisti. Ora i suoi nemici, capeggiati dalla potente Susana Díaz, presidente andalusa, non possono far altro che mostrare il loro sostegno e nascondere i pugnali dietro la schiena. Díaz e i pochi altri presidenti regionali socialisti sanno che ostacolarlo ora sarebbe la loro condanna a morte elettorale.

Fra le molte cose che non gli hanno perdonato è proprio la sua perseveranza. Aveva vinto le primarie del 2014, allora proprio con l’appoggio dell’establishment del partito, e di Susana Díaz in particolare. Nel 2016 fu proprio quell’establishment a cacciarlo nella terribile riunione del Consiglio federale tenutasi il primo ottobre. Lo scontro all’interno del partito fu trasmesso in diretta: golpe e destituzione di Sánchez. Solo pochi mesi prima era stato incaricato di formare un impossibile governo dal re, basandosi su un’improbabile accordo con Ciudadanos e sperando che Podemos lo appoggiasse. Non funzionò, il suo stesso partito non glielo permise.

Fu la reggenza del Psoe che decise l’astensione alla fine di quell’ottobre 2016 nel voto chiave per mantenere in sella Rajoy – che era rimasto ad interim per più di un anno. Sánchez, forte del suo motto di campagna elettorale «No è no», optò per le dimissioni da deputato per non partecipare a un voto che non condivideva. La sua carriera è finita, dicevano. Invece solo pochi mesi dopo, riuscì a imporsi con l’appoggio dei militanti sulla candidata dell’apparato del partito, Susana Díaz, in nuove primarie. L’inaspettata vittoria spiazzò i suoi molti avversari interni.

Da allora Sánchez ha dovuto affrontare la sfida di essere il capo dell’opposizione ma senza avere la tribuna parlamentare come scenario: difficilissimo. E in più, con un gruppo parlamentare in cui aveva ben pochi ammiratori. Il tutto nel mezzo della crisi catalana, dove i socialisti hanno scelto di appoggiare Rajoy nell’applicazione dell’articolo 155, cosa che certamente è costata al partito molti voti in Catalogna (e la perdita del governo di molti comuni, fra cui quello di Barcellona, in cui i socialisti erano gli unici alleati di Colau).

Nonostante gli sforzi del Pp, Sánchez ha resistito alle sirene di Rajoy: il Psoe non ha appoggiato né la finanziaria 2017, né quella del 2018. E ha votato molte volte con Unidos Podemos iniziative che poi il Pp con i fedeli alleati di Ciudadanos hanno bloccato. E che ora Sánchez dice di voler riprendere: l’ultima in ordine di tempo è la cancellazione della cosiddetta «tassa sul sole» che ha distrutto l’implementazione delle energie alternative in Spagna. Zapatero aveva lasciato una Spagna cui lo stesso Obama diceva di ispirarsi (nel suo discorso di investitura del 2009) per quanto riguarda l’energia pulita.

Davanti a sé Sánchez ha una sfida ancora più ambiziosa: governare in fortissima minoranza, ma soprattutto vincere le prossime elezioni. E possibilmente, senza rovinare i rapporti con i partiti alla sua sinistra. Due anni fa sembrava una missione impossibile, ma oggi nessuno sottovaluta più il nuovo presidente socialista.