Come l’autunno che le fa da cornice, la ripresa delle stagioni liriche dei più grandi teatri italiani programmata in queste settimane continua ad avere toni dolceamari. Grande l’euforia dei proclami di resistenza e rinnovamento emanati, dei tentativi fatti di superare le logiche conservatrici di una tradizione scenica secolare, degli slanci da esploratori verso il Nuovo Mondo della Rete discussi. Ma su tutto regna imperturbabile la malinconia generata dalla mancanza del pubblico.
Cito in ordine sparso gli esperimenti di maggior rilievo: Marino Faliero di Bergamo (direzione: Frizza; regia: Ricci-Forte), Il barbiere di Siviglia di Pesaro (Spotti; Pizzi), Otello di Firenze (Mehta; Binasco), Cavalleria rusticana di Napoli (- ; Valčuha), Il barbiere di Siviglia di Roma (Gatti; Martone). Qualcuno ripiega sulla forma concertata, altri tentano messe in scena frontali o a tutto tondo. Quasi tutti, concentrandosi su come reinventare lo spazio teatrale tragicamente interdetto, lasciano in secondo piano l’elemento di mediazione principale tra opera e pubblico: la regia tv o streaming. Complice la mancanza del tempo necessario a formare nuove menti e nuove mani, quella mediazione è stata ancora affidata a prassi e maestranze allenate a riprendere gli spettacoli della tradizione. Fa eccezione Martone, che resuscita ingegnosamente l’antica e gloriosa ricetta del film-opera con gli agi della differita e del montaggio.

IL TEATRO ALLA SCALA, particolarmente colpito dalla seconda ondata della pandemia da Covid19 come la città di Milano che lo ospita, ha preso di petto la serata fatidica del 7 dicembre dispiegando una vera e propria corazzata di 21 cantanti (menzione speciale per Flórez e Rebeka) diretti da Riccardo Chailly, 8 ballerini (grande Bolle) diretti da Michele Gamba, 10 attori di prosa (su tutti Solano e Marinoni) e la scrittrice Michela Murgia, tutti impegnati in un’unica drammaturgia alla quale il regista Davide Livermore, evocando la certezza speranzosa che nasce dalla fede di un celebre verso di Dante, ha dato il titolo «A riveder le stelle».

QUESTO VIAGGIO attraverso i sortilegi cantati e ballati del teatro musicale otto-novecentesco si muove entro un repertorio enorme, che include Verdi, Donizetti, Puccini, Bizet, Massenet, Rossini, Čajkovskij, Dileo, Satie, con coreografie che accostano Nureyev, Volpini e Legris. La sensazione è quella di assistere da lontano a un banchetto trimalcioniano organizzato per dare la sensazione di un’opulenza e di una grandiosità che vogliono essere guardate e ammirate, offrendo un sogno inarrivabile a chi, seppure solo virtualmente, ne degusta le prelibatezze. Così, come supremo esorcismo delle tragedie del mondo, si tenta di riconfermare l’identità della Scala, in cui l’estetica è inseparabile dal brand, come luogo fuori dal mondo dove va in scena il lusso inteso come magnificenza (fare cose grandi), fasto (farle con audacia) e sontuosità (farle senza badare a spese).
E allora non solo la sala del Piermarini viene occupata dallo spettacolo, ma la drammaturgia si proietta fuori dal teatro per perdersi all’inizio e alla fine per le vie di una città notturna che, nella desolazione che la affligge da mesi, guarda alla Scala cercando una speranza di rinascita: nel prologo sulle note di «Io son l’umile ancella» da Adriana Lecouvreur di Cilea intonate da Mirella Freni, con cui il teatro si mette a servizio dell’arte, e nell’epilogo sulle note di «Tutto cangia» da Guglielmo Tell di Rossini, che inneggia all’avvento della libertà dalla schiavitù del male.
Tra questi estremi Livermore si spinge molto oltre l’esperimento di Martone, realizzando non un film-opera, ma una vera e propria enciclopedia dello spettacolo lirico, un iper-film in cui riesce incredibilmente a trovare la chiave per mettere in scena non una ma sedici opere, attingendo a piene mani alla sua memoria pittorica e cinematografica.

COSÌ, mentre il filo conduttore dell’acqua, potente metafora di rigenerazione e di rinascita, inanella il susseguirsi delle arie, siamo sorpresi da reminiscenze di Fellini, Visconti, Hitchcock, Kubrick, Manet, Millais e da citazioni sapienziali di Montale, Pavese, Gramsci, fino all’assioma di Aristotele, secondo cui «la speranza è il sogno di uomo sveglio». In quest’inverno tetro e inodore che ha preso il posto del paesaggio autunnale con i suoi colori e profumi lancinanti, a quasi un anno dall’inizio della “crisi” dello spettacolo dal vivo, «A riveder le stelle» ci ha preso alla sprovvista facendoci sognare da svegli per diverse ore.
Quando torneremo a dormire il sonno della ragione inflitto dalla pandemia ci troveremo però ancora di fronte a una scelta inevasa: o elaborare nuove forme di spettacolo a distanza economicamente sostenibili o registrarne l’impossibilità e aspettare tempi migliori.