Un registratore di cassa. Dlin. Il metallico tintinnare dei soldi. E una canzoncina a mò di jingle che ammonisce: «Non puoi avere niente per niente. Solo uno sciocco ci proverebbe». Quasi un manifesto dell’era capitalista: «Puoi avere tutto ciò che desideri, ma devi pagarlo». Automobili, gioielli, profumi, ma anche il cibo che metti in tavola. Si dice che ci sono cose che non si possono comprare. Ma quali? La bellezza, i tesori dell’arte, la salute e la giovinezza, la campagna, la musica, il cinema, i viaggi. Non puoi avere nessuna di queste cose se non hai i soldi per pagarle. E – parola di Fritz Lang – «non puoi cambiare le regole, non puoi avere niente per niente!»

È tutto nella sequenza di apertura di You and Me, una piccola perla nascosta nella filmografia del regista tedesco. Un film inedito e quasi invisibile fino a oggi, penalizzato da una circuitazione limitata e riportato alla luce dalla Shockproof che eroicamente lo distribuisce in Home Video colmando una vera e propria lacuna.

IL FILM, girato nel 1938 in condizioni precarie in soli 45 giorni, ebbe scarsa fortuna al botteghino sia all’estero che in Italia, dove – nonostante il lancio sulla stampa di settore – il regime fascista ne bloccò addirittura l’uscita. Di certo la matrice esplicitamente brechtiana e marxista del film è stata un ostacolo importante, non solo per la pellicola ma anche per lo stesso Lang, che per un periodo si ritrovò segnato su una «grey list» di registi che dimostravano simpatie filo-comuniste.
You and Me conclude una ideale trilogia sociale (o «del film carcerario») che comprende i primi due titoli girati da Lang negli Stati Uniti (Furia e Sono innocente). In esso si ravvedono facilmente alcuni elementi ricorrenti anche nel suo cinema «maggiore»: a cominciare dalla critica a una società ostile e disattenta nei confronti delle classi più deboli, escluse, giudicate e spesso (pre)destinate alla vita criminale per assenza di reali opportunità.

Anche se in You and Me il discorso è un po’ più articolato. Abbiamo un ex detenuto da poco uscito di prigione, Joe Dennis (George Raft) assunto come commesso in un grande magazzino. Il proprietario è il signor Morris, un uomo che oggi sarebbe tacciato di «buonismo» per la sua indole generosa e l’abitudine di impiegare uomini e donne che hanno avuto problemi con la legge e che – una volta saldato il loro debito con la giustizia – cercano un lavoro per reinserirsi nella società (ma anche allora, agli occhi della moglie, la filantropia di Morris appare più come un segno di debolezza che una virtù, un fardello di cui farebbe volentieri a meno).

IMPIEGATO modello deciso a rifarsi una vita, Dennis convola a nozze con la collega Helen Roberts (Sylvia Sidney). Lei però, per il timore di deluderlo, non gli confessa che, come lui, conserva qualche ombra nel suo passato. Si sposa, quindi, contro la legge, che impedisce i matrimoni durante il periodo di libertà vigilata. E quando lui scopre la menzogna, sentendosi tradito, trova rifugio nei vecchi compagni della gang, ancora nel giro della malavita, con i quali organizza un colpo ai grandi magazzini. Sarà Helen a sventare la rapina e impartire a tutti una lezione morale, garantendo al film un insolito happy ending.

Nonostante gli elementi che li legano, siamo di fronte a qualcosa di molto diverso dalla furia di M, il mostro di Düsseldorf o ai precedenti titoli della trilogia. Ci troviamo nell’America degli anni Trenta, tra guardie e ladri, pregiudizi e disoccupazione. Il clima, però, si è fatto leggero, il ritmo vivace e i generi si mescolano: noir, commedia, melodramma e perfino il musical.

PER QUESTO film Lang riveste anche il ruolo di produttore, in questo modo ha potuto godere di una libertà creativa altrimenti inimmaginabile. Libertà che si traduce in uno dei suoi film più modernisti e sperimentali: omaggio al fotografo newyorchese Paul Strand, che in quegli anni investigava le realtà economiche del Paese, e il tentativo di trovare un corrispettivo cinematografico dello stile teatrale di Brecht. Non solo provando a coinvolgere Kurt Weill in prima persona per le musiche, quanto – soprattutto – per le intenzioni, quelle di creare un genere «didattico», che al pari del Lehrstück, insegnasse al pubblico che il crimine non paga.

Come ebbe a dire Lang: «Una menzogna». C’è un altro suggerimento, di natura più politica. La gang di rapinatori che aspettando Natale ricordano con nostalgia i bei tempi al fresco rimpiangendo il sogno di libertà e i desideri inappagati, funge da satira e allegoria della società capitalista e consumista da cui gli ex detenuti sono stati esclusi. Lang però si scontra con un pubblico poco incline a cercare contenuti profondi nella commedia. Il cinema di genere ha le sue regole e la sua favola pedagogica non piace, condannata a un flop clamoroso almeno quanto ingeneroso.