Siamo a Cagliari sotto le bombe della seconda guerra mondiale: la prima sequenza ci porta in un luogo quasi surreale tra la paura e la follia di chi corre per nascondersi nei rifugi mentre lì rimane una donna giovane, vestita di nero, il volto senza sussulti come il suo silenzio.

 

 

Il nuovo film di Enrico Pau si pone una scommessa ambiziosa, che poi ricorre nei film di un regista eccentrico rispetto agli stili e alle mode del cinema italiano; e cioè il racconto di un tempo, e di un mondo, attraverso personaggi messi davanti a una scelta che è insieme una sfida alla loro realtà a cui Pau cerca una corrispondenza visiva nella composizione pittorica delle inquadrature, nei colori delle stoffe (gli abiti di Antonio Marras) che qui sembrano intrecciarsi agli stati d’animo del personaggio.

 

 

Annetta, questo il nome dela donna – a cui dà corpo e dolore silente Donatella Finocchiaro – è un’ «accabadora» come venivano chiamate nella cultura sarda più arcaica le donne chiamate per dare la «buona morte» a chi ne faceva richiesta, malati terminali e sofferenti. Annetta ha lasciato il villaggio per cercare la nipote fuggita quando ha scoperto cosa faceva (Sara Serraiocco). E lì, nella città piena di morti, vittime della guerra, la donna scopre la possibilità di una liberazione, di un’altra vita che potrebbe scegliere contro la «condanna» di tornare indietro.

 

 

Questa sospensione, la stessa che attraverserà la Sardegna, la regione del regista che vi ha ambientato tutte le sue storie (Jimmy della collina; Pesi leggeri), e l’Italia intera alla fine del conflitto, è caratterizzata dalle stesse lacerazioni che segneranno la nostra Storia, in cui il bisogno di libertà della protagonista trova il suo riflesso e le sue contraddizioni.

 

 

Ma L’accabadora è anche, o forse soprattutto un film «femminile». Nella scrittura – la sceneggiatura è del regista insieme a Anna Iaccarino e al graphic novelist Igort – è come se il regista provasse, esasperandone i contorni, a scompigliarne la dimensione letteraria che solitamente vi si accompagna: quella che imprigiona l’accabadora e quella che punteggia le figure di quel paesaggio di rovine, di un matriarcato millenario in cui il destino veniva accettato con rassegnazione.

 

 

Annetta diviene una ribelle, e con sè, tra le paure e l’emozione di un amore «estraneo» al suo mondo che le permette di reinventarsi, porta il sentimento della sua terra con le sue ricchezze nascoste e le speranze appese a un filo (molto bello l’inserto di un filmato d’epoca che mostra la processione di Sant’Efisio attraverso le macerie), col peso di un passato pesante e dei suoi spettri.