NELL’IMMAGINARIO collettivo intorno alla Sardegna la pastorizia è una di quelle tradizioni millenarie che ha conservato identici negli anni i suoi tratti, quasi fossero gli abiti in velluto dell’abbigliamento tipico del pastore sardo. In realtà, l’unica cosa a non essere mai cambiata è la centralità del latte. I celebri formaggi sardi non sono che una minima parte di ciò che «nasce» da quel latte, pure se su casu è legato in modo indissolubile a floklore su cibi e tradizioni della Sardegna quanto e più dei culurgiones, il pane carasau, e l’immancabile – specie a Natale – porceddu, parola che abbonda fra i «continentali» quando parlano di Sardegna ma che nessuno di loro è mai riuscito a pronunciare con precisione.

MOLTO PRIMA che la globalizzazione e i regolamenti europei imponessero una standardizzazione dell’artigianato del cibo, interrompessero per sempre i «viaggi all’estero» dei maialetti nelle borse di chi partiva per visitare i parenti emigrati, e rovinassero molti piccoli produttori con normative che richiedono forti investimenti, l’arrivo nell’Ottocento degli «industriali» romani sull’isola ha cambiato la pastorizia sarda per sempre. Con le loro grandi aziende casearie impiegano da allora la maggior parte del latte di altissima qualità prodotto in Sardegna (al 2010 il 91%) per la produzione di un prodotto dozzinale, il pecorino romano, inviato soprattutto negli Stati Uniti per il mercato dei poveri migranti italiani.

Per questo una delle rivendicazioni principali del Movimento dei pastori sardi è che se in oltre due secoli la pastorizia ha attraversato trasformazioni profonde, l’industria è rimasta identica a se stessa, senza saper né voler immaginare un modo per valorizzare e proteggere un prodotto dalla qualità altissima.

 

OLTRE alle ovvie conseguenze economiche contro cui si batte il Movimento dei pastori questa monoproduzione incide sulla ricchezza delle tradizioni culinarie relative al formaggio sardo, di cui prima esistevano una miriade di varianti mentre oggi è ridotto a pochi «esemplari».
In Sardegna come altrove insomma il cibo è il luogo in cui convergono non solo memoria, tradizioni e conoscenze ma una lotta politica, che oggi il Movimento porta avanti anche contro l’Unione europea, fautrice di norme iper restrittive improntate al timore di germi vari e assortiti ma che non ricambia i pastori con la stessa fermezza in fatto di importazioni nell’Isola – molti agnelli e maialetti vengono dall’est Europa per poi essere spacciati come sardi nei supermercati e sulle tavole imbandite per Natale e Pasqua.

FRA I FORMAGGI fatti sparire dalla germofobia imperante c’è uno dei prodotti più «leggendari» della Sardegna, di cui persino chi non l’ha mai neppure visto (a oggi è merce di contrabbando al pari di un panetto di hashish) decanta la stranezza: il casu martzu, il formaggio coi vermi, una di quelle tradizioni culinarie su cui gli americani fanno le trasmissioni sulle cose strane e un po’ disgustose del mondo – che in fatto di accuratezza etnologica equivalgono alla scena della cena dal marajah di Indiana Jones, a base di cervello di scimmia semifreddo, serpente a sorpresa e scarafaggi alla piastra.
Ma il casu martzu per chi l’ha conosciuto non è niente di tutto questo: è un ricordo che si perde in un tempo altro, che è stato interrotto senza possibilità di compromesso. È una memoria, il luogo di una resistenza che invece continua.