L’emergenza Covid-19 ha posto sotto gli occhi di tutti l’inadeguatezza del modello organizzativo, incentrato sulle Residenze sanitare assistenziali (Rsa), attraverso il quale il Servizio sanitario nazionale (Ssn), nelle sue articolazioni regionali, si prende cura (meglio: dovrebbe prendersi cura) dei malati non autosufficienti.

Certamente la decisione scellerata, effettuata in molte regioni, di trasferire i pazienti ancora affetti da Coronavirus, ma non più bisognosi di cure ospedaliere, dagli ospedali alle Rsa è stata, ed è, causa di indicibili sofferenze per tanti, troppi, malati e loro familiari (in molti casi, ancora oggi impossibilitati a far visita ai loro congiunti sopravvissuti).

Ma è chiaro che conseguenze tanto gravi non si sarebbero verificate se un numero così grande di persone, bisognose di cure sanitarie continue, non fosse stato concentrato in strutture prive di una dotazione di personale medico e infermieristico adeguata. Il problema si annida, dunque, a monte della pandemia, in un modello organizzativo incapace di far fronte già alle esigenze ordinarie della non-autosufficienza.

Ne è ennesima riprova un recente caso toscano, che vede coinvolta la Signora P., riconosciuta «nella condizione di non autosufficienza con alto indice di gravità» e quindi bisognosa di «inserimento permanente in Rsa» (valutazione del 27.12.2019 dell’Unità di Valutazione Multidisciplinare della Azienda Usl Toscana Centro), e, tuttavia, non immediatamente ricoverata a carico del servizio pubblico, ma collocata in graduatoria, con un tempo d’attesa stimato in circa quattro mesi, con il risultato che, nel frattempo, la paziente si ritrova ricoverata a proprie spese per la metà c.d. “alberghiera” della retta e senza garanzia della copertura regionale per la restante metà corrispondente alle prestazioni sanitarie.

E ciò, nonostante la legge n. 833/1978 stabilisca chiaramente: (a) che spetta «allo Stato, alle regioni e agli enti locali territoriali» (art. 1, co. 3), che operano per mano di diversi enti di gestione, tutelare la salute dei cittadini tramite la «promozione», il «mantenimento» e il «recupero» «della salute fisica e psichica di tutta la popolazione senza distinzione di condizioni individuali o sociali e secondo modalità che assicurino l’eguaglianza dei cittadini nei confronti del servizio» (art. 1, co. 3); e (b) che, a tal fine, il Ssn deve farsi carico, tra l’altro, della «diagnosi e cura degli eventi morbosi quali che ne siano le cause, la fenomenologia e la durata» (art. 2, co. 1, n. 3).

Particolarmente speciosa risulta l’argomentazione spesa a sostegno della propria decisione dalle autorità sanitarie toscane, vale a dire la necessità di farsi carico delle esigenze di cura di un ampio numero di persone in un contesto in cui le risorse disponibili sono limitate dalla legislazione regionale che istituisce e finanzia il Fondo per la non-autosufficienza.
L’argomento non regge, perché far fronte alle carenze di bilancio mettendo i malati gli uni contro gli altri – anziché riorganizzando in modo più efficiente il servizio (attraverso il potenziamento dell’assai meno costosa assistenza domiciliare) e, se ancora necessario, finanziandolo in modo tale da renderlo capiente rispetto alle necessità – è strada incompatibile con il dettato costituzionale.

Tra i numerosi riferimenti rinvenibili nella giurisprudenza costituzionale (da ultimo, sentenze n. 275/2016, n. 169/2017 e n. 62/2020), particolarmente rilevante è la pronuncia n. 36/2013, per la quale «non vi è un rapporto automatico tra ammontare del fondo sanitario regionale e rispetto dei livelli essenziali di assistenza: il soddisfacimento di tali livelli non dipende solo dallo stanziamento di risorse, ma anche dalla loro allocazione e utilizzazione».

Seguendo analoga impostazione, la sentenza n. 1/2020 del Consiglio di Stato ha recentemente risolto il caso di un ragazzo veneto riconosciuto disabile al 100%, ma non ammesso a frequentare il Centro Diurno per questioni di bilancio, stabilendo che eventuali carenze di risorse – in ogni caso non proclamabili in astratto, ma da dimostrarsi in concreto come ostative all’erogazione della prestazione – non possono ledere il nucleo essenziale del diritto alla salute.

E, d’altro canto, se ammettessimo che i diritti, pur proclamanti dalla Costituzione, dipendono dalla scelta del legislatore di destinare risorse adeguate alla loro attuazione nella legislazione di bilancio, diverrebbe inevitabile domandarsi quale sia la fonte davvero sovraordinata nel nostro ordinamento: la Costituzione o la legge di bilancio?