Era quasi scontato che dopo l’exploit commerciale del romanzo-inchiesta di Saviano e il successo dell’omonimo film di Garrone, si pensasse a un prolungamento televisivo. E Sky, che anche sul terreno della serialità si sta ritagliando uno spazio prestigioso per consistenza produttiva e qualità, ha bruciato la concorrenza con una serie prodotta in collaborazione con Cattleya, Fandango, La7 e la tedesca Beta Film, che cura anche la distribuzione internazionale della serie.

Trenta settimane di riprese, iniziate il 4 marzo, tra Napoli e dintorni (Poggioreale, Scampia, Ponticelli, San Giovanni a Teduccio e Torre Annunziata) con la collaborazione della Film Commission Regione Campania, ma anche Barcellona, Milano e Ferrara,12 puntate di 50 minuti l’una in onda agli inizi del 2014, tre registi, 2000 provini per scegliere un centinaio di attori, tutti napoletani o campani, un costo di oltre un milione di euro a puntata (che per la produzione italiana media è una cifra da kolossal).

Gomorra – La Serie esibisce già dei dati che restituiscono la dimensione di un progetto ambizioso che vuole varcare i confini del mercato italiano. Un’operazione del resto già riuscita con Romanzo criminale, esportato con successo in oltre 60 paesi, e il cui cast tecnico, di alto livello, è in gran parte coinvolto anche nella realizzazione di questa nuova serie.

A cominciare dal regista Stefano Sollima – figlio di quel Sergio glorioso artigiano del cinema di genere amato da una certa cinefilia per almeno due titoli il western Corri, uomo corri e il poliziottesco Città violenta e autore del popolarissimo Sandokan televisivo – regista di alcuni episodi della serie, ma anche supervisore artistico.

Sollima ha diretto un solo film per il grande schermo, Acab, ma non fa la televisione con il complesso del piccolo schermo né la considera il fratello povero del cinema. Anzi, in linea con lo stile di Sky, che sta affrontando la serialità italiana con un’innovazione linguistica e una maggiore libertà espressiva portandola a un livello sempre più cinematografico con un occhio alle grandi serie americane, vuole dare al racconto di Saviano una forma tra l’affresco epico, avvincente e spettacolare e la grande saga familiare.

Anche per questo la scrittura è stata affidata a ben sei sceneggiatori, con Saviano che ha partecipato all’elaborazione del soggetto.

La serie ruota intorno alla parabola dei Savastano che finiscono per disintegrarsi tra guerre con la famiglia rivale dei Conte, faide, scissioni interne e «paranze» di ragazzi sempre più intraprendenti. Figura centrale è il killer Ciro Di Marzio al servizio dei Savastano. Per il boss Pietro, egli è il figlio che avrebbe voluto avere, perché il suo Genny non ha la stoffa del malavitoso, pesa 120 chili e quando il padre decide di ritirarsi, spetta a lui gestire il business della droga, dei rifiuti e degli appalti truccati. Per istruirlo, quindi, Pietro decide di affidarlo proprio a Ciro.

La struttura narrativa della serie naturalmente è diversa da quella del film…

Sollima: Qui il racconto si svolge in un arco narrativo molto più lungo e la saga familiare della ascesa e caduta dei Savastano e del problema della successione al boss si può dividere in tre blocchi ideali: «Il regno di Pietro», «Il regno della moglie reggente» e «Il regno del figlio». Sono nove episodi diretti in successione da me, Francesca Comencini e Claudio Cupellini, poi io girerò anche la «soluzione finale» che comprende altri tre episodi.

Quando ancora non erano partite le riprese, ci fu la protesta di alcune associazioni anticamorra, della municipalità di Scampia e anche del sindaco di Napoli perché, secondo loro, la fiction contribuiva a diffondere un’immagine negativa di una zona in balia della criminalità e dello spaccio di droga…

Sì, poi l’iniziale diffidenza è stata superata grazie anche all’intermediazione del produttore Gaetano Di Vaio dei Figli del Bronx che in quest’operazione è coinvolto come consulente per il linguaggio e tramite tra Sky e la società civile. Ho compreso la reazione di molti cittadini che vivono in questi quartieri difficili, che non hanno rapporti con la camorra e vorrebbero che anche la fiction non rappresentasse solo gli aspetti negativi. Ma al tempo stesso in questo caso volevo che la finzione fosse quanto più verosimile possibile, che le scene fossero girate nei luoghi dove veramente accadono i fatti descritti da Saviano. È un problema di onestà intellettuale, per questo non ero d’accordo con qualcuno che ventilava la possibilità di simulare Scampia altrove.

Per quanto riguarda il rapporto tra finzione e realtà, ognuno la vede in un modo: c’è chi pensa all’effetto emulazione e chi è convinto che in molti casi la realtà supera talmente la fiction che si tratta di casualità, come è accaduto quando abbiamo girato una scena in via Stadera nella zona di Poggioreale. Qualche giorno dopo proprio là hanno ammazzato un ragazzo.

Da film di successo alle serie. Prima «Romanzo criminale» e ora «Gomorra». Quali problemi può incontrare il regista dal punto di vista dell’«integrazione» e della «visione supplementare» del film?

Garrone ha adattato solo il 30% del libro, quindi c’era molto materiale al quale attingere, a differenza di Romanzo criminale per il quale il romanzo di De Cataldo è stato utilizzato integralmente sia per il film che per la serie. L’opera di Saviano ha la struttura di un’inchiesta giornalistica, è più aperto di un romanzo tradizionale, pieno di digressioni, di percorsi laterali, che danno spunti narrativi e consentono sviluppi e rielaborazioni in sede di soggetti e sceneggiature. Se il problema del confronto non me lo sono posto per Romanzo criminale, figuriamoci se me lo pongo per Gomorra che mi dà l’opportunità di costruire una storia completamente diversa da quella del film…

Nella serie ci sono echi dell’antica tragedia greca e shakespeariana. Il male viene raccontato dall’interno, senza giudicarlo né condannarlo, ma osservato e mostrato. Un mondo senza eroi né vincitori.

Anche se l’impianto narrativo è classico, con il mondo del crimine rovesciato dall’ascesa al crollo della famiglia camorristica Savastano, ho lavorato – rispettando lo spirito del romanzo – sullo spezzettamento, sulla parcellizzazione del racconto, esplorandone i vari rivoli. Il romanzo tradizionale è più orizzontale, la storia la vedi solo da un punto di vista. Io avevo, invece, a disposizione un materiale che mi consentiva di utilizzare più punti di vista (i killer, il boss, sua moglie) di cambiare di volta in volta la prospettiva, anzi di mostrare come funziona il meccanismo del riciclaggio, della corruzione, della «paranza» dal punto di vista del personaggio che «governa» l’episodio.

Hai scelto un cast di attori legati al territorio, con esordienti che si mischiano ad attori professionisti: Marco D’Amore, Fortunato Cerlino, Maria Pia Calzone, Nello Mascia, Salvatore Esposito, Marco Palvetti, Domenico Balsamo. Avevi dichiarato che non volevi prendere nessun attore che avesse partecipato anche in ruoli marginali al film di Garrone.

Ho preferito tutti attori ex novo, mi sembrava disonesto ricorrere ad interpreti del film sia nei confronti dello spettatore che ha già visto il film sia di quello che non l’ha visto. In ambedue i casi lo spettatore deve essere vergine alla visione.

Sei stato influenzato da qualche film o serie statunitense o italiana?

Guardo molte serie americane, sono quelle più cinematografiche. Ma ciò che maggiormente mi ha influenzato è quello che ho visto realmente facendo i sopralluoghi e girando per Napoli. In questi casi capisci che per quanto si possa lavorare d’immaginazione, non c’è niente che possa sostituire la realtà. Ho visto delle situazioni e dei personaggi che non sono riproducibili con la fantasia.

Prima di dedicarti alla televisione in Italia, hai fatto un importante apprendistato girando alcuni documentari da zone di guerra per grandi network americani. Quale insegnamento ti ha lasciato quell’esperienza?

Che non bisogna mai aver paura di quello che non si conosce. Sono cose che devi vivere in prima persona e fino in fondo.