L’epoca della globalizzazione è quella in cui anche la fede, al pari di altre «strutture» fondanti del mondo umano, smarrisce i contorni netti propri di un’entità identitaria per assumere le linee errabonde di una dimensione liquida e reticolare.
In particolar modo, trattandosi di un’epoca che ha trasfigurato ed estremizzato le possibilità dell’umano, vincolando le persone a scegliere fra i due poli dell’individualismo egoistico e solipsistico oppure dell’appartenenza alle folle omologate e passive della galassia social, finisce che il sentimento della fede si trova di fronte a un bivio forse mai così netto. O meglio, il bivio è dell’uomo: da una parte abbandonarsi a Dio nell’obbedienza affidandogli il nostro futuro (San Paolo), dall’altra rinunciare a Dio identificandolo soltanto come un’eco del grido di dolore lanciato dall’uomo stesso (Feuerbach).
Se intendiamo la fede (e con essa la fiducia, facoltà che le è connessa) come una libera scelta soggettiva, cogliamo tutta la problematicità di un tempo che sembra condannare l’individuo a spogliarsi proprio della sua facoltà di soggetto attivo, tanto della sua vicenda personale quanto di quella collettiva.
Di questo e altro discutiamo con Klaus Müller, decano dell’Università di Münster e teologo di fama internazionale, che in questi giorni ha preso parte al seminario «Fede/Fiducia» organizzato dall’Istituto di scienze religiose «Italo Mancini» dell’Università di Urbino.

In un testo attribuito a San Paolo l’apostolo scrive che «la fede è fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono». Emerge con forza e tormento il «mistero della fede», ma questa definizione è ancora accettabile per la teologia contemporanea?

Una teologia pienamente consapevole dei propri strumenti, così come dei propri limiti, sa che la fede è cosa differente dal sapere. Se non altro perché al centro del sentimento della fede vi è una dimensione di fiducia personale, che implica la scelta soggettiva dell’individuo che decide di credere. Inoltre, a differenza del sapere, che si caratterizza per la sua forma di dato acquisito qui e ora, la fede si fonda sempre su una relazione con il futuro, con quella dimensione della «speranza» che si rivela centrale nel rapporto fra l’essere umano e la trascendenza. Nella teologia contemporanea tutto questo viene rappresentato mediante una tensione escatologica assai vivace in tutto il discorso.

Nella medesima direzione, assume un significato fondamentale anche il tema della «fiducia» a cui lei ha accennato. Tema, peraltro, centrale nel pensiero di Martin Lutero. La fede, insomma, si rivela come un atto di libertà dell’individuo che, in piena autonomia, sceglie di affidarsi al messaggio di salvezza incarnatosi con il Cristo.

Il monaco delle Novantacinque tesi voleva restituire una teologia esistenziale di colore francescano, che si contrapponesse frontalmente alla teologia ideologica dei papi del suo tempo. Però ritengo che, contemporaneamente a questo intendimento essenziale, egli stesse scoprendo e valorizzando il significato e l’importanza dell´individuo, e soprattutto delle sue scelte in merito alle questioni della fede. Certamente, però, è con Lutero che la «first-person-perspective» (prospettiva in prima persona del sentimento della fede, n.d.r.) diventò una dimensione integrale del parlare di Dio anche per la teologia.

La «fede che cerca di capire» è il titolo provvisorio che Anselmo d’Aosta dette al suo «Proslogion». Titolo che riprende l’agostiniano «credo per capire», e che sta a significare la preminenza che la teologia assegna alla fede sull’intelletto. La fede è necessaria a ogni tipo di comprensione?

In Anselmo è riscontrabile un modello dialettico rispetto la relazione tra fede e ragione. Solo partendo da questo assunto di fondo possiamo cogliere il senso del suo messaggio, specie laddove affermava che i misteri della fede, dopo l’opera di purificazione della ragione da parte della fede stessa, si mostrano come «rationes necessariae». In una prospettiva più generale, che quindi esula dal campo ristretto della religione e della religiosità, credo sia necessario ricordare che la fede, declinata nel senso di fiducia rispetto ad una qualsivoglia teoria cui si decide di aderire, è la condizione fondamentale di possibilità di ogni forma di sapere in quanto tale. Questo è l’insegnamento per me imprescindibile, che per esempio ho ritrovato in autori come Jacobi, Fichte e Wittgenstein.

Come risponde, da teologo, alla tradizione materialista che a partire da Feuerbach ritiene che sia stato l’uomo a creare Dio, fornendolo di tutte quelle caratteristiche che in realtà servono all’uomo stesso per trovare un conforto al senso di vuoto, all’angoscia di esistere?

Feuerbach riassume in maniera dialetticamente efficace un argomento che, in realtà, possiamo riscontrare fin dai tempi di Senofane di Colofone. Si tratta di una vera e propria tradizione che, nell’ambito del pensiero filosofico (penso, per esempio, a Cusano, Spinoza e Fichte), mette in discussione con ottimi argomenti, e secondo me a ragione, il presupposto antropomorfico che può risiedere nel sentimento della fede. Per me, Feuerbach non è un ateista, come troppo spesso si decide di catalogarlo, ma piuttosto un anti-teologo che cerca di approfondire il senso profondo di quello che è il centro nonché il fulcro della religione cristiana. Sto parlando del sentimento da cui può partire ogni sentimento di fede e di fiducia: l’amore.

Nella nostra epoca, conseguente all’enunciato nietzscheano per cui «Dio è morto», alla fede canonica nell’Altissimo si sono sostituiti vari surrogati «mondani». Pensiamo alla politica, oppure alla scienza. Oggi, da più parti, si parla di «teologia economica», poiché quella nel mercato ci viene presentata come una vera e propria «fede». Lei cosa ne pensa?

La nostra è certamente l’epoca in cui l’economia ci viene incontro con le sembianze tipiche di una nuova forma di universalismo, alla stregua di quella che in filosofia si definisce una «istanza trascendentale»: ossia con la pretesa di presentarsi come la più forte e autentica condizione di possibilità di ogni esperienza umana. Questa pretesa viene al tempo stesso supportata e intensificata dai nuovi mezzi di comunicazione di massa digitali, che all’interno della cosiddetta «cyberphilosophy» si autocomprendono come una nuova religione del mondo. Però questi «nuovi dei» risultano il più delle volte privi di sensibilità, oltre che incapaci di dire qualcosa di veramente «umano» rispetto alle istanze più elementari dell’uomo, come per esempio la giustizia, la misericordia, il perdono, il rispetto per i deboli.

La fede in un’entità assoluta sembra, per definizione, configurarsi come una forma di assolutismo che non può dialogare con credenze diverse, tetragona al dialogo e al confronto. Le guerre di religione, che oggi hanno assunto il nome di «scontro di civiltà», ci dicono questo, oppure si tratta di una concezione erronea del sentimento della fede?

Già nell’epoca della scolastica, e soprattutto del rinascimento, nella filosofia si discute il problema della verità assoluta in riferimento al nesso tra religione e violenza. Però nel tardo settecento (nei dibatti su panteismo, ateismo e sulle cose divine – dibattiti tra Jacobi, Mendelssohn, Fichte e Schelling) nascono modelli di riconoscimento reciproco di pretese veritative tra religioni diverse, modelli che possono aiutare anch`oggi ad evitare scontri di civiltà. Al centro di questi modelli si trova l`idea di una «theologia prisca» (una teologia originaria, anteriore alla nascita delle diverse religioni), che si declina nei termini di un’identità che è inafferrabile senza il confronto con le diverse credenze.

Quali ritiene che siano le sfide principali a cui la Chiesa deve rispondere, per recuperare il senso della fede nell’epoca della secolarizzazione compiuta e di un mondo, quello umano, che sembra sentire il peso del «cielo vuoto»?

In primo luogo la Chiesa deve acquistare (ed anche riacquistare) la fiducia delle persone. Si tratta di tornare a fornire delle risposte, in modo credibile e con onestà intellettuale, alle domande più fondamentali della vita dell’uomo, anche nella sua dimensione sociale. È indispensabile un’apertura simpatetica della Chiesa verso tutte le forme di vita concreta (senza pregiudizio aprioristico), che si basi sul rispetto per le differenze culturali e per le differenti forme di prassi morale e spirituale. Un’azione che possa dispiegarsi anche verso le realtà locali e regionali, in opposizione al rigido centralismo del Vaticano. Inoltre la Chiesa deve tener conto degli sviluppi irrevocabili operati dalle società moderne: penso, in primo luogo, alla questione dell’equiparazione delle donne. Abbiamo bisogno di una forte trasparenza negli atti della dottrina, come in quelli di auto-riproduzione (nomina delle gerarchie, etc.) e di amministrazione del magistero. Soltanto a queste condizioni, ritengo che la Chiesa saprà manifestare quell’autenticità dalla quale dipende la credibilità del Vangelo.