Se ne va anche Goldman Sachs. La più grande banca d’affari del mondo si aggiunge all’esodo di aziende occidentali che abbandonano di corsa la Russia. Era a Mosca dal 1998, la superbanca di Wall Street, quando Vladimir Vladimirovic Putin era “solo” il capo del Fsb (il Kgb post-sovietico) – sarebbe diventato primo ministro l’anno dopo. Non è enorme, l’ufficio russo di Goldman Sach, e nemmeno molto esposto (dichiara 650 milioni di dollari a fine 2021). Ma è un’azienda americana e alle sanzioni americane deve obbedire. Quella delle sanzioni è una guerra, non molto meno sanguinosa dell’altra, certamente più globale.
La fuga di Goldman Sachs arriva il giorno dopo che Moody’s ha declassato il debito russo di dieci tacche in un colpo solo, a Ca (una tacca prima del default). Standard & Poor’s ha declassato di otto tacche, da BB+ a CCC-, a tre sole tacche dal fallimento. La parola magica è default, quella bancarotta pubblica che è il mantra ripetuto da ogni cancelleria occidentale e dagli Stati uniti, i quali chiedono inoltre «sanzioni ancora più dure» per imporre a Putin ciò che le armi ucraine non possono, la diplomazia non riesce e la Nato per ora non vuole.

IL QUOTIDIANO economico Kommersant ha già titolato “Debito inesigibile” e avvertito che i russi hanno pagato le ultime cedole ai soli obbligazionisti residenti – cioè a chi non è fuggito dal paese. Pagheranno le prossime in rubli, secondo il più recente decreto economico putiniano. «I prossimi pagamenti sugli Eurobond sovrani scadranno il 16 marzo», scrive Kommersant. Sono “solo” 117 milioni di dollari di cedole. Se il derelitto rublo sarà rifiutato, ecco che il default della Russia diventerebbe una realtà (il default della prima impresa pubblica potrebbe già essere scattato: ieri gli obbligazionisti di Russian Railways attendevano 23 milioni di euro di cedole: per ora nessuna traccia dei pagamenti).

IL CREMLINO naturalmente non sta fermo ad aspettare. Ieri Putin ha riunito i ministri e aperto un fuoco di minacce economiche appena meno preoccupanti dei recenti riferimenti al nucleare: una inflazione mondiale sugli alimentari e la nazionalizzazione delle aziende in fuga. «Le sanzioni – ha detto Putin – faranno male a chi le impone e potrebbero provocare un ulteriore aumento dei prezzi alimentari a livello mondiale. Russia e Bielorussia sono i più grandi fornitori di fertilizzanti del mondo e se continuano a crearci problemi allora i prezzi, che sono già esorbitanti, cresceranno ancora». E contro le aziende fuggiasche, Putin ha ripetuto che «è necessario agire in modo deciso contro le compagnie straniere che stanno interrompendo le loro operazioni in Russia, e ci sono soluzioni legali al riguardo». Vuol dire una «gestione esterna» – in sostanza una nazionalizzazione – delle proprietà disertate da quella che Bloomberg ha definito «una fuga di multinazionali e di marchi mai vista prima». Ieri anche Stellantis – cioè la Fiat – ha sospeso ogni movimento da e per la Russia, come hanno fatto Carlsberg, Heineken, Caterpillar, Deer e Sony. Hanno così raggiunto Ikea, McDonald’s, Western Union, Ferrari, Mercedes, Volvo, Ford, Renault, Mazda, Harley Davidson, e poi Eni, Shell, Equinor e Exxor, e Microsoft, Apple, Netflix, Disney, Starbucks e Lego, quindi Chanel, Zara, Nike, H&M… L’altro giorno ha chiuso persino la Coca Cola, che non se n’era andata nemmeno dal Terzo Reich. L’azienda di Atlanta ha venduto la sua soda in Germania per buona parte del periodo nazista, invasioni comprese, smettendo di inviare lo sciroppo-base a Coke Germany solo con l’entrata in guerra degli Stati uniti – e l’uomo-Coca Cola presso Hitler, il tedesco Max Keith, andò avanti inventando una bibita interamente prodotta in Germania: la chiamarono Fanta.

Al Bano non andrà a cantare in Russia, addio ai concerti previsti per ottobre. Chissà come influirà sull’opinione pubblica russa. L’attendibile contatore degli arresti del sito Ovd-Info ieri sera segnava 13.839, un numero enorme ma sostanzialmente fermo da giorni, dopo le retate del 6 marzo (quasi cinquemila ammanettati). Pacifisti intimiditi, forse. Oppure troppo pochi per minacciare un consenso nazionale che Putin non sembra proprio avere perso.