L’artista Vincent Meessen presenta il suo nuovo lavoro nell’ambito di una mostra collettiva curata insieme a Katerina Gregos per il Padiglione del Belgio. Vincent Meessen è uno degli artisti che più si sono interessati al rimosso della modernità coloniale, attraverso una serie di lavori spesso basati sulla ricerca documentaria e sull’attualizzazione critica del passato. Il suo nuovo progetto mette al centro la stagione delle lotte anticoloniali e dell’internazionalismo attraverso la vicenda dell’Internazionale Situazionista in Congo. Per Personne et les autres – questo il titolo della mostra veneziana – Meessen ha invitato otto artisti che riflettono sull’eredità coloniale focalizzandosi sulla ricerca delle connessioni tra passato e presente. I lavori di Mathieu K. Abonnenc, Sammy Baloji, James Beckett, Elisabetta Benassi, Patrick Bernier e Olive Martin, Tamar Guimaraes e Kasper Akhøj, Myriam Jafri, Adam Pendelton compongono una mostra che indaga alcuni dei temi cari a Vicent Meessen attraverso l’idea della «possessione reciproca», che rimanda al modo in cui le relazioni prodotte dal colonialismo continuano ad abitare il nostro presente.

La mostra che stai preparando per il padiglione del Belgio insieme alla curatrice Katerina Gregos si intitola «Personne et les autres» (nessuno e gli altri)…
Il titolo proviene da un testo di André Frankin, una figura totalmente dimenticata in Belgio, che ha partecipato all’Internazionale Situazionista scrivendo soprattutto di teatro. Frankin mi interessa anche perché nella sua corrispondenza con Debord si trovano molti riferimenti al Congo. Il titolo ha una sua forza poetica, un po’ alla Beckett, ma si presta anche ad una lettura politica, così ho pensato che fosse adatto sia al progetto a cui stavo lavorando sull’eredità situazionista in Congo, che all’idea di invitare altri artisti che si interessano alla modernità coloniale. I lavori riuniti nel padiglione tentano infatti di fare vivere aspetti diversi di quella storia e di rimettere in circolazione una serie di idee legate alla stagione delle lotte per l’indipendenza. L’intervento di Patrick Bernier e Olive Martin riassume il senso dell’operazione: un gioco di scacchi in cui ogni pedina catturata cambia colore e può essere giocata di nuovo. Questo dispositivo si riallaccia alla mia idea della «possessione reciproca», secondo cui la modernità coloniale ha prodotto degli incontri, delle relazioni e delle forme che sono ancora in divenire.

Mi sembra che questo riferimento a «gli altri» descriva anche la tua posizione nei confronti della struttura della Biennale, con i suoi padiglioni nazionali.
La polisemia del titolo riflette la decisione di atomizzare la logica della rappresentanza nazionale mutualizzando il padiglione con artisti che provengono da paesi e continenti diversi. Questo mi permette di mettere in questione il contesto della mostra connettendolo con le mie ricerche sulla modernità coloniale. Quello del Belgio è stato il primo padiglione straniero ad essere costruito nei Giardini e va collocato nel quadro della «sequenza imperialista» legata a Leopoldo II, che tra il 1894 e il 1930 ha promosso una serie di esposizioni universali e coloniali. La Biennale è imparentata con quel tipo di eventi, è una sorta di figlia illegittima delle esposizioni coloniali. Il titolo è diventato un invito a pensare che, poiché mi stavo interessando all’Internazionale situazionista in Congo, stavo anche riaprendo la questione della fine dell’internazionalismo in senso lato, dei suoi discorsi, retorica, semantica: a un certo punto, è tutto sparito dal vocabolario della sinistra radicale. Realizzare questo progetto a Venezia, dove si è svolto l’ultimo convegno situazionista nel 1969, significa riaprire quel discorso a partire da una triangolazione inedita tra tre città: Bruxelles, Venezia stessa e Kinshasa.

Nel padiglione ci sarà il tuo ultimo lavoro, «One.Two.Three», filmato a Kinshasa…
Il lavoro prende spunto dall’internazionalismo di quegli anni, in particolare da un canzone insurrezionale scritta nel 1968 da M’Belolo Ya M’Piku nella sua lingua madre, il kikongo. M’Belolo Ya M’Piku è stato un situazionista congolese ed è la figura principale del mio film, incentrato sulla ricomposizione tra il presente e la canzone, che viene rielaborata da una band di rumba. Il film si svolge a Kinshasa, all’interno di un edificio incredibile che è un po’ il tempio della rumba. Nel film ci sono due momenti: il primo riguarda la memoria di un’opera che non era mai stata registrata e che il suo stesso autore aveva dimenticato. Il secondo riguarda la possibilità di rimettere in circolo la componente africana dell’Internazionale Situazionista e di farlo oggi, a Kinshasa. Il mio lavoro si pone controcorrente rispetto alla mitologia situazionista, così eurocentrica e focalizzata sulla figura di Guy Debord, perché si interessa ad una pagina rimossa di quella storia cercando di problematizzarla nell’ambito di un lavoro artistico. Tutto questo poi si è intrecciato in modi anche drammatici con l’attualità degli ultimi mesi, visto che mentre giravano il film c’è stata un’insurrezione popolare proprio a Kinshasa e che quell’esperienza per così dire «in diretta» ha orientato alcune delle mie scelte.

Molte tue opere sono incentrate sulla ricerca dei nessi che connettono la produzione intellettuale e artistica europea con il colonialismo, o meglio con gli anni dei movimenti di liberazione anti-coloniale.
Il punto di partenza di One.Two.Three può ricordare quello di Vita Nova (2009) in cui la fotografia del bambino soldato descritta da Barthes era l’indizio da cui partiva la mia ricerca. La differenza però è che qui c’è un testimone che racconta la sua storia, un intellettuale che è il personaggio principale del film. La sua testimonianza è intrecciata sia con il lavoro delle musiciste della band di rumba, che con gli spazi dell’edificio in cui ho realizzato il film: le musiciste sono collegate tra di loro da una serie di cavi e tentano di accordarsi musicalmente in una sorta di deriva situazionista negli ambienti del palazzo. Il film produce così la collisione di due storie: quella della rumba e quella dell’internazionalismo. La rumba è la forma artistica più diffusa in Congo, è una musica ibrida arrivata da Cuba negli anni ’40, ma è legata alla tradizione locale perché contiene elementi riconducibili alla tradizione bantu. Soltanto due generazioni separano gli ultimi schiavi mandati a Cuba dal momento in cui la musica è tornata sul continente, e alcuni elementi sono tornati in Africa con poche differenze. Il mio lavoro consiste nel fare incontrare una canzone di tipo tradizionale, scritta da un musicista congolese, con una rumba degli anni 60. Questo lavoro musicale e cinematografico riflette un piano epistemologico che riguarda gli incontri e le collisioni che si producono quando degli aspetti della modernità occidentale vengono messi alla prova di uno spaesamento o di una traduzione in contesto coloniale.

Come definiresti il tuo interesse per la storia?
Il mio lavoro è in qualche modo il contrario della storia intesa come un rapporto diretto, cronologico. Quello che mi interessa è piuttosto quando qualcosa che è stato rimosso torna a disturbarci nel presente, ricordandoci che la storia delle lotte per l’emancipazione va vissuta giorno per giorno. Penso che come artista la si può attualizzare trovando delle forme appropriate che rimandino alla potenza di invenzione che ha caratterizzato quelle lotte, il che naturalmente non esclude la militanza politica, ma credo siano due aspetti diversi. Non si tratta dunque di riscrivere la storia, ma di lavorare contro il positivismo della storia mantenendo questo desiderio di produrre qualcosa di positivo che possa funzionare come una pragmatica per il presente.