«La trappola della crescente disuguaglianza» ha reso le nostre società «più ingiuste anche se più ricche» e ora «sta ora togliendoci la speranza di un futuro migliore». Quella di Romano Prodi nel libro intervista Il piano inclinato (il Mulino, pp. 159, 13 euro, con Giulio Santagata e Luigi Scarola) che esce oggi in libreria è un’analisi pacata e senza colpi di teatro – alla maniera del Professore – ma anche senza sconti delle nostre economie e delle nostre economie sfiduciate, dove tramonta «l’idea che dopo di noi le cose andranno meglio». Vi si trova la fotografia di un paese – l’Italia è in primo piano, sullo sfondo c’è l’Europa ma anche l’America di Trump e la Cina dove il Professore insegna – che scivola verso il baratro e che ha bisogno di una raddrizzata urgente. Dagli anni 80, è la sintesi della prima sezione, la libertà di movimento dei capitali è diventata fondamento dell’economia, ma il combinato disposto fra globalizzazione e nuove tecnologie ha fatto calare i salari, «la precarietà è diventata una virtù e ci siamo lentamente abituati a una diminuzione del welfare state». L’ascensore sociale è bloccato, il ceto medio subisce «un processo di esclusione dai diritti di cittadinanza» che mette a rischio la «generazione nata dopo il 2010», dopo la crisi. Un processo «pervasivo» e «senza rivolta», vissuto come ineluttabile. Compito della politica è dunque «la lotta contro la povertà» e «la ricostruzione di una robusta e diffusa classe media».

Il fondatore dell’Ulivo non è diventato un no global vendemmia tardiva, ma è chiaro che le ricette politiche degli ultimi venticinque anni sono state oggetto di critica del suo lavoro di studioso e professore di economia e politica industriale (a Bologna e a Shanghai). Immaginiamo anche di autocritica. Vero è che il suo non essere mai stato socialista lo ha naturalmente e politicamente protetto dalla sbornia degli anni della «sinistra liberista». La sua fede nel welfare, nella mano sapiente negli investimenti pubblici e delle politiche industriali sono la naturale prosecuzione delle idee del premier del 1996 e quello del 2006 ma anche del ministro di Andreotti e del presidente dell’Iri.

Prodi non propone un cambio di paradigma. O forse sì, ma lo fa ben attento a non millantare idee nuoviste, attitudine di quei vecchi leader ormai lontani dal potere che impossibilitati a fornire cattivi esempi si acconciano a dare buoni consigli. La ricetta degli aggiustamenti non è una rivoluzione. Ma già solo l’idea di una politica fiscale mirata a finanziare il potenziamento dello stato sociale oggi suona quantomeno come riformismo forte. La crescita ineguale non è crescita, spiega, «nessuna crescita di lungo periodo può essere mantenuta senza la promozione delle risorse umane che solo un welfare diffuso garantisce». La crescita o è «inclusiva» o non è.

Prodi evita la polemica politica diretta se non quella con gli avversari storici (le destre, quelle che lui in Italia ha battuto due volte, ad altri quest’impresa non è riuscita per ora). Anche se è difficile non leggere qualche critica al renzismo in alcuni passaggi, per esempio quello sull’«inaccettabilità» dell’indebolimento dei corpi intermedi. Ma il suo intento è più ambizioso: la proposta di «qualche azione», scrive con malizioso understatement, qualche colpo di «cacciavite», quel cacciavite con cui il Prof è convinto di poter raddrizzare il mondo, emblema e bandiera del prodismo da sempre, suo punto di forza e suo limite, come gli anni del governo hanno dimostrato. L’abstract del saggio è un possibile programma di un esecutivo di centrosinistra post-crisi: investimenti, scuola e università, reddito minimo, inclusione, «preparazione culturale e livello etico dei cittadini». Scherzi del calendario, in libreria arriva nell’anniversario del giuramento del suo vituperato secondo governo, oggi in via di riabilitazione da una parte della sinistra. E suona come un programma minimo – ma non troppo – offerto ai democratici non renziani per il 2018.