Cosa hanno in comune il disastro della diga di Brumandinho (Minas Gerais, Brasile – 25 gennaio 2019) e quello in corso oggi nelle acque, una volta cristalline, di Pointe d’Esny, a Mauritius?

Molto più di quello che potreste immaginare. Bandiera di Panama e proprietà giapponese, la motonave da carico Wakashio (che non è affatto una petroliera) era partita da Singapore, dove si era rifornita di carburante, per attraversare mezzo mondo e arrivare (dopo aver doppiato il Capo di Buona Speranza – Sud Africa) a Tubarao, Brasile. Non è un porto qualsiasi: è un porto di proprietà di Vale, gigante minerario brasiliano adesso sotto indagine per il disastro di Brumandinho quando la diga della miniera ha ceduto, uccidendo 270 persone. A Tubarao, la Wakashio doveva imbarcare minerale di ferro: non sappiamo dove avrebbe dovuto portarlo ma sappiamo com’è andata. Lo scorso 25 luglio, la nave naufraga su una barriera corallina a Mauritius.

La Wakashio non è (era) una «carretta del mare»: costruita nel 2007 appartiene a una compagnia solida (la Nagashiki Shipping) e questo rende ancora più difficile spiegare l’incidente. Non ci sono notizie di avarie o condizioni meteo avverse e tra le poche opzioni che restano c’è quella dell’errore umano: su alcuni media si parla di una festa di compleanno a bordo. È sempre facile dare la «colpa» all’equipaggio ma forse dovremmo chiedere perché un mostro di 300 metri di lunghezza come la Wakashio passava così vicino alla costa.

È uno scenario che ricorda un po’ il naufragio della Costa Concordia ma con una differenza fondamentale: la Wakashio (e le navi commerciali) si avvicinano così tanto a Mauritius non per motivi «turistici» ma per risparmiare tempo nella rotta che porta a doppiare il Capo di Buona Speranza. Una rotta folle, che Greenpeace e Dis Moi (associazione per la tutela dei diritti umani) hanno chiesto di chiudere, in una lettera aperta alla proprietà della nave e all’autorità di Mauritius. La lettera chiede anche una indagine severa e indipendente sia sulle cause che sugli impatti, adeguate misure di compensazione e, soprattutto, di ripensare il sistema dei trasporti marittimi che deve essere svincolato al più presto, come tutta la nostra società, dalla dipendenza dai combustibili fossili.

Sono questi combustibili infatti che adesso stanno mettendo in serio pericolo una delle aree più incontaminate di Mauritius: non c’è bisogno di «petroliere», tutte le grandi navi (da carico o passeggeri) sono potenzialmente pericolose. Al momento del naufragio, si stima che a bordo della Wakashio ci fossero circa 3.800 tonnellate di «bunker» (combustibile pesante usato in crociera) e 200 tonnellate di diesel (combustibile che fornisce più potenza e si usa in particolare per le manovre).

Un quarto di questa robaccia adesso sta contaminando una delle zone più delicate di Mauritius. Difficile prevedere gli impatti sulle numerose specie rare che vivono nella barriera corallina (Blue Bay è nota per la presenza di tartarughe marine) e nelle paludi costiere a mangrovie (protette dalla Convenzione di Ramsar) che ospitano specie minacciate di rettili e uccelli.

Lo stress causato dagli idrocarburi potrebbe indurre lo «sbiancamento» dei coralli (che, se prolungato, porta alla distruzione della barriera corallina) e, oltre che lungo la costa, gli «spruzzi» delle onde (aerosol) possono disperdere anche nell’entroterra sostanze cancerogene e tossiche come gli idrocarburi policiclici aromatici (Ipa) presenti nel carburante di questa come di tutte le navi che alimentano il vorace appetito delle nostre società dei consumi.