Al vederlo è un albero, un grande baobab adagiato lungo la riva del fiume, un semplice albero, eppure è un sito storico perché ai piedi di questo albero venivano assiepate le persone destinate a diventare schiave. Si trova nella punta di un triangolo che incrocia tre paesi: Zimbabwe, Mozambico e Zambia, chiamato con l’acronimo «Zimoza».

NELLA CONFLUENZA sorge la piccola cittadina di Feira, mercato all’aperto in portoghese, che risale al XVI secolo quando i commercianti portoghesi usavano questa cittadina portuale sul fiume Zambesi come mercato per schiavi, oro e avorio: tesori che secondo molti sono ancora sepolti in qualche grotta lasciata dai portoghesi. Gli arabi che commerciavano da secoli lungo la costa orientale dell’Africa, si addentravano raramente nell’entroterra, preferivano contrattare con la popolazione locale che portava per loro le merci sulla costa.
Al contrario i portoghesi quando arrivarono sulla costa orientale, iniziarono a ispezionare l’entroterra, seguendo la popolazione locale, gli Nsenga Luzi, lungo il percorso del fiume Zambesi.

A FEIRA NEL 1856 arrivò anche l’esploratore inglese David Livingstone, che nel suo libro Lo Zambesi e i suoi affluenti scrisse: «Potremmo dare un resoconto completo dell’orrore del commercio degli schiavi in modo approssimativo, nessuno conosce il numero di vite che vengono distrutte. Poiché siamo sicuri che se anche la metà della verità fosse stata detta, il sentimento degli uomini sarebbe stato così profondamente risvegliato, che questo diabolico traffico di carne umana sarebbe stato abbattuto. Ma né noi né nessun altro abbiamo le statistiche necessarie per un lavoro di questo tipo».

SECONDO L’ATTUALE DIRETTORE esecutivo della National Heritage Conservation Commission (Nhcc) Donald Chikumbi molte guerre del secolo scorso in Africa furono legate al commercio degli schiavi, sebbene le guerre legate all’espansione dei regni continuassero, i commercianti di schiavi le esacerbarono per i loro guadagni economici: «Arabi e portoghesi incoraggiavano i capi delle tribù più forti a dichiarare guerra ai gruppi più deboli allo scopo di avere nuovi schiavi». Si stima che 19 mila schiavi provenienti dallo Zambia e dal Malawi siano passati da Zanzibar mentre almeno altri 5 mila all’anno venivano portati in Arabia.

SE SI PROSEGUE VERSO NORD ci sono ancora tracce della missione di Mambwe-Mwela a Mbala dove vennero eretti dei bastioni per proteggere gli schiavi liberati dai commercianti arabi e dai loro alleati Bemba (del Congo). Qui improvvisamente ti cadono addosso come pioggia le parole di Giorgio Manganelli: «Non fanno il viaggio né la lunghezza né la durata, né le così dette meraviglie, i capolavori che ci può accadere di vedere. Il viaggio è fatto in primo luogo di sé stesso. È uno spazio longilineo, dentro il quale, come in una fessura del pianeta, cadono immagini, profili, parole, suoni, monumenti e fili d’erba. Si possono fare diecimila miglia senza per questo aver viaggiato; si può fare una passeggiata, e la passeggiata può diventare quella fessura, essere viaggio. Non viaggiavano gli emigranti ottocenteschi, che pure mutavano di cielo, né viaggiano i turisti in gregge, che una guida incattivita riempie di capolavori. Viaggiare è operazione o solitaria o di sparuta compagnia; ed è lasciarsi cadere nel fondo di quella magica fessura che ci porta da un luogo all’altro».

È QUESTO CHE DONALD CHIKUMBI vorrebbe creare: delle rotte turistiche perché le persone scoprano questo «patrimonio» culturale, «la conservazione e la promozione dei siti e delle reliquie degli schiavi contribuiranno costantemente a ricordaci di non avere di nuovo questo approccio nella storia futura dell’umanità. Saranno un invito combattere tutte le forme contemporanee di razzismo, discriminazione, xenofobia, intolleranza e ogni forma di ingiustizia», conclude Chikumbi. Inoltre sarebbe importante, secondo Charles Ndakala, segretario dell’Unesco in Zambia «non dimenticare che anche prima dell’avvento di europei e arabi, il commercio di schiavi esisteva nello Zambia e avveniva tra le tribù». Le ricerche hanno rivelato che la documentazione disponibile sulla famosa Stevenson Road, una tratta commerciale di schiavi, che parte da Mbala per Nakonde verso la Tanzania, è completamente diversa da quella che si trova sul terreno.

SE IL COMMERCIO DEGLI SCHIAVI c’è stato, significa, secondo Ndakala, che potrebbe ancora esserci. Adesso è tutto più complesso, intrecciato, si è schiavi del gioco, di una sostanza, di una organizzazione criminale e in alcuni casi la schiavitù appare persino una “scelta”. Ben venga quindi la memoria che per parafrasare Elsa Morante, in alcuni, è come un vizio. È qualcosa che indebolisce e consola, vacuamente, che fa fuggire dalle responsabilità. In altri, invece, è un dono gelosamente custodito, vissuto solo per sé. Una memoria egoista.

In alcuni, finalmente, la memoria che si accende alimenta uno sforzo: quello di recarla anche ad altri, di farla vivere nel flusso della vita comune, nei suoi inciampi, nelle sue potenzialità, nei drammi, nelle sconfitte, nelle incertezze. È una memoria che s’intreccia al senso di responsabilità e che anzi lo nutre e lo scalda, lo illumina. È ciò che di più distante sia pensabile, dal vacuo consolarsi o illudersi.

 

Il tema dell’abolizione della schiavitù visto dal pittore francese François-Auguste Biard in un quadro del 1848