La nostra sensazione frustrante di lettori nei confronti delle narrazioni dei popoli migranti è spesso quella che, a fronte della loro drammaticità, del dolore, non producono più nella società italiana indignazione, ma una coazione a ripetere che rischia la retorica, o addirittura sentimenti all’incontrario. Forse anche per il loro statuto espressivo, quello di un giornalismo troppo concentrato sulle meccaniche dei fatti e della politica spicciola, quotidiana del contingente. Solo quando la cronaca diventa letteraria, assume una forma empatica e complessa di racconto corporale, come nel caso di Ancora dodici chilometri (Bollati Boringhieri, pp. 218, euro 16), il notevole reportage di Maurizio Pagliassotti, allora si è finalmente coinvolti dentro scenari umani e naturali, torna la verità della commedia umana, e la lingua di cui è fatto il libro tocca i sensi e i sentimenti proprio perché, come afferma Andrea Bajani nella prefazione, è «scritto con occhio sincero fino alla disperazione».

IL SUO USO DEL REPORTAGE narrativo così diventa cittadinanza attiva, partecipazione politica, azione quotidiana, viaggi sul campo, in fuoristrada, inforcando la bicicletta o camminando. L’autore si concentra su un punto, in una delle tante frontiere-mondo, la «rotta alpina», e fa di quella striscia di terra un luogo potente dell’immaginario, un campo complesso da esplorare, perché quella geografia diventa memoriale intimo e racconto di formazione di un tempo altro, quello dell’infanzia, luogo di echi romanzeschi, ma soprattutto è dove avviene il passaggio di molti migranti, l’ultimo miglio, dopo anni, mesi di viaggi attraverso deserti, oceani, fatti di naufragi, morte e abbandono.

SONO I DODICI chilometri di cammino e di calvario che dal Claviere italiano portano fino alla cittadina di Briançon, in terra francese, con in mezzo il passo del Monginevro, dove «la formidabile armata dei sonnambuli», come li chiama l’autore, sfida l’Europa, le gendarmerie d’oltralpe, la neve, gli impervi e pericolosi sentieri di montagna, la morte, e i razzisti sovranisti partoriti nel ventre del consumismo capitalista, nati dal tarlo della sottocultura e della televisione trash e dai social che li nutre d’odio e di nulla.
Camminano al buio nei boschi questi ragazzi africani, lo stesso buio del mare o dei deserti, immagina chi scrive. La loro forza, coraggio e intelligenza, l’indomabile volontà, li rende agli occhi di una civiltà in decadenza dei nemici, in questo libro infatti diventano altro, diventano fantasmi della storia di ritorno, s’intrecciano con i destini lontani di altri dispersi, altri sommersi e salvati, quelli delle Centomila gavette di ghiaccio russe, o nelle immagini in bianco e nero del Cammino della speranza (1950), il capolavoro di Germi, dove un gruppo di operai disoccupati di una solfatara siciliana cammina fino al confine tra l’Italia e la Francia.
Pagliassotti è molto bravo a tenere insieme nello stesso palinsesto reportage emotivo sul campo, di cui è spesso insieme cronista e protagonista («Io, oggi, sono un passeur» dice a un certo punto), fatti e contesti dell’attualità politica e sociale con quelli storici, paesaggistici, a dire il vero molto toccanti e tesi nelle descrizioni vertiginose, il locale con il globale, perché qui siamo in Valsusa, ma anche dove arrivò dal Meridione la manodopera degli anni ’50 e ’60 e faceva la settimana bianca «la piccola borghesia impiegatizia del mondo Fiat».

GLI ECHI LETTERARI di questo libro sono molti, e la neve – il ghiaccio e le montagne, uno dei temi e simboli forti – riportano alla memorialistica di Nuto Revelli, a Rigoni Stern e Buzzati, certi scenari e sentieri ricordano i fantasmatici passeur di Francesco Biamonti. La «rotta alpina» diventa così per i tanti migranti avventura drammatica e sconfinamento verso un altrove sconosciuto, fino all’ultimo tratto di strada, dodici chilometri, che sono un abisso. In questo fazzoletto di terra resistono anche gli ultimi uomini di buona volontà, spinti dalla generosa gratuità del dono, soli e senza più politica, senza classe e senza partito, paradossalmente nemici dei lunpenproletariat fascistoidi che ringhiano nei bar, contenti di aver finalmente trovato «qualcuno ancor più disgraziato da odiare», un solco del libro che emerge come bubbone sociale.
Ma quando nevica forte, e fa molto freddo, escono dalle proprie case confortevoli e vanno verso la montagna con un pasto caldo, un paio di scarponi, vanno a disinfettare le piaghe dei soldati di questo esercito della miseria. Molti di loro sono militanti no Tav, così «Le stesse mani che hanno gettato sassi contro lo Stato hanno salvato lo Stato dalla vergogna di avere una distesa di cadaveri ripugnanti tra i suoi boschi».