Da sempre al centro di una serie di reciproche attenzioni e convenienze, l’affascinante e complessa vicenda coevolutiva delle relazioni tra uomini e rose non può certo prescindere dalla condizione duplice di queste ultime. In quanto soggetto vegetale e assieme icona culturale.

Difficile spesso districare questa dualità. Che individua le rose come emblema di bellezza, dalla purezza di quelle bianche scaturite dalle onde alla nascita di Afrodite, alla pericolosa seduzione di quelle evocate nell’Inghilterra vittoriana de La leggenda della Rosaspina del preraffaelita Edward Burne-Jones. Fiori capaci di farsi tramite con il divino per via di offerte e ghirlande e di reinventarsi nei passaggi tra religioni. Rosa pre-monoteistica che nel credo islamico diviene modello botanico del divino e che, per quanto assente nella Bibbia, finirà poi per essere emblema della conversione dei pagani. Riferimento già di aspirazioni mistiche, tradizioni esoteriche, veicolo di messaggi in letteratura, associata all’amore fin nel linguaggio, dal Roman de la Rose alla florigrafia d’inizio Ottocento, ma anche oggetto di attenzione estetica, rara forma tangibile capace di comunicare l’ineffabile (Rainer Maria Rilke). E, ancora, pianta per ricreare mondi nei giardini, come pure indicatore dell’evoluzione del gusto in pittura nel suo pervasivo diffondersi e riapparire tra sparizioni e mutamenti di senso.

Ma, pur nel variare di funzioni e significati accumulati in differenti contesti, questa pluralità di segni deve fare i conti con alcune importanti scansioni che riguardano la sua specificità ecologica e biologica in quanto pianta. È da questo assunto che muove la lettura di Simon Morley nel suo Non solo rose Storia culturale di un fiore (Solferino, pp. 352, € 21,00).

In realtà, la maggior parte delle rose che oggi riconosciamo come tali risultano perlopiù esteticamente ben diverse da quelle note dall’antichità fino a inizio Novecento in Europa. Con alcune, poche eccezioni, prima della seconda metà dell’Ottocento, difatti, la maggior parte delle rose europee fiorivano soltanto per qualche settimana tra fine primavera e inizio estate; avevano corolle più semplici, meno globose, si aprivano in maniera più appiattita lasciando in evidenza lo stame centrale; spesso profumate, erano caratterizzate specialmente da colori tenui.

Di questo tipo dovevano essere quindi i referenti vegetali evocati da Anacreonte nelle sue Odi o da Shakespeare in Giulietta e Romeo. Mentre quelle tenute in mano dal giovinetto che simboleggia il Piacere nell’Allegoria di Venere e Cupido di Agnolo Bronzino difficilmente possono essere associate a un gruppo di rose cinesi, attestato in Europa soltanto a fine Settecento, come in un’improbabile attribuzione che quindi scardinerebbe datazioni consolidate in rodologia. È soltanto nel corso dell’Ottocento che, difatti, a opera specialmente degli inglesi, si compie la rilevante migrazione delle rose dell’Estremo Oriente verso Occidente. Ed è con l’arrivo qui delle rose cinesi che si introduce in maniera massiccia anche il tratto distintivo della rimontanza, ovvero della capacità di fiorire ripetutamente, e che, più in generale, si determina un’importante rivoluzione nei tratti del corredo genetico della rosa e nel suo aspetto.

Si affermano così le rose moderne che discendono perlopiù da questi incroci, dalle famiglie degli ibridi di tea poi, con gli anni cinquanta del Novecento, le floribunda. Fisionomie con fattezze tutte ben distanti, per dirne qualcuna, dall’esemplare di gallica semidoppia legata a un sostegno sul quale si poggia un usignolo negli affreschi della Casa del bracciale d’oro di Pompei, o da quelle della siepe che spartisce la scena della Battaglia di San Romano di Paolo Uccello. O altrimenti oggetto d’attenzione scientifica, come nell’imponente corpo di fedeli riproduzioni all’acquarello realizzate da Pierre-Joseph Redouté. Fin quando, a fine dell’Ottocento, risulteranno piuttosto occasione per impressioniste sperimentazioni cromatiche dov’è difficile individuare quelle raffigurate. Come per il Cesto di rose di Henri Fantin-Latour.

Allevate per assecondare un gusto che predilige ormai i colori chiari e accesi della modernità, le nuove rose si affermano nel quadro di un sistema socioeconomico dove entrano in gioco anche il marketing, il diritto d’autore e le leggi sui brevetti.

A complicare le cose, nel gioco incrociato di mode e tendenze, mentre cresce il successo per le moderne di cui si è detto, si assiste di converso a una minoritaria, qualificata reazione contro l’estetica tutta formale di queste nuove varietà. Anche in relazione all’eccesso di segni e interpretazioni di cui le rose sono andate caricandosi nel tempo, si sostiene che occorre tornare alla pianta in sé. Non a caso, nel dopoguerra si parla di nuovo di rose selvatiche, «classiche» da giardino, di vecchie rose, per come erano fino all’avvento degli ibridi di tea.

A sua volta, la moda delle vecchie rose produce, a partire dagli anni ottanta, l’aspirazione per «nuove» rose che mantenessero però anche alcune delle migliori caratteristiche delle vecchie varietà da giardino: vere e proprie «varietà storicizzate o postmoderne», dette rose inglesi, che, stilisticamente, hanno significativamente corretto la nostra concezione delle rose odierne.

La moltiplicazione e il diversificarsi nei secoli delle varietà delle rose in quanto soggetti vegetali e la pluralità di usi e funzioni che abbiamo assegnato loro anche in quanto catalizzatori di senso, sono state e sono volta a volta esito di prolungati, reciproci interessi incrociati. Quello umano nei confronti della natura delle rose, che, inducendo e cogliendone le mutazioni, ne valorizza caratteri estetici come la rifiorenza, ma anche fisiologici, di robustezza e capacità adattativa, perfino all’incuria; e viceversa, quello della rosa, con le sue importanti trasformazioni morfologiche adottate per andare incontro a gusti e disponibilità dei nuovi interlocutori umani, in modo da suscitarne e mantenerne l’attenzione, per poterla poi sfruttare nella logica della selezione naturale.

Che la si indossi come gioiello floreale, sia colta per decorare le case o significare messaggi religiosi, valori o sentimenti, che sia raffigurata in dipinti, oggetti d’arredo, carte da parati o che si affolli a crescere nei grandi e piccoli giardini, per la rosa, essere ritenuta bella è un vantaggio evolutivo che ne aumenta e garantisce la diffusione.

A partire dai primi anni novanta, anche nel quadro di un complessivo, paradigmatico ripensamento critico dei comportamenti dell’uomo nei confronti del vivente, si è andata affermando un’attitudine neonaturalista che, privilegiando attenzione e valorizzazione anche nell’estetica del giardino ai processi spontanei e associativi in natura, sembrerebbe per alcuni versi minacciare il ruolo della rosa, e la sua postura, piuttosto artificiale.

Una messa in crisi dell’estetica e del valore attribuito al ruolo simbolico tradizionale della rosa che l’arte contemporanea testimonia con l’insistenza sulla sua continua metamorfosi, anche di significati. Nelle opere di Cy Twombly, nelle rose di legno policromo del Grande vaso di fiori di Jeff Koons o in quelle gigantesche disposte da Will Ryman nel 2011 lungo dieci isolati di Park Avenue a New York.
Ispirazioni per una re-invenzione della rosa al futuro, da restituirsi magari invece al suo carattere più spontaneo e disordinato. Quello delle varietà più irregolari, di rovi rampicanti o copri suolo.